25 aprile 2010
Altro che americani!
Andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.
Piero Calamandrei

Buon 25 aprile a tutti.

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08 marzo 2008
Ah, gattaccio!
Mi fai fare anche quel che non volevo... Contento?
Nel nostro Paese, la Giornata internazionale della donna viene regolarmente festeggiata solo dal 1945, per volontà e iniziativa congiunta dell’Unione Donne italiane, e del Centro Italiano Femminile.
Questo è particolarmente significativo e dovrebbe indurre ognuno di noi ad una seria riflessione, dato che dimostra nei fatti come, di fonte ai grandi temi, quali il diritto al lavoro e alla parità salariale, assieme alla possibilità di fare carriera al pari degli uomini e poter così non solo subire, ma anche partecipare attivamente a determinare la vita pubblica nazionale, pare proprio che le donne - socialiste, comuniste, cattoliche, ex partigiane o anche solo vedove di guerra - avessero scoperto già 63 anni fa come superare quella oggi apparente impossibilità di convivere e cooperare per il conseguimento di un obiettivo comune, che superi le differenze per esaltare le affinità, e rendere così quell’obiettivo realizzabile. Dando in questo modo, credo, una importantissima lezione di civiltà e tolleranza, anche politica, ancora oggi di grande valore e attualità .
Anche la data di questa festa, simboleggiata dal fiore della mimosa poiché facilmente reperibile in questo periodo dell’anno, è legata a quella storica riunione, che si ebbe l’8 marzo nell’aula magna di un liceo romano.
Ci spiace quindi, ma dobbiamo proprio sfatare una credenza ancora oggi profondamente radicata: l’8 marzo fortunatamente non vi fu nessuno sciopero delle operaie tessili di New York represso con la violenza, né la morte di più di 100 di queste operaie intrappolate in un fabbrica in fiamme, come ancora troppo spesso si sente affermare, anche dai mezzi d’informazione.
La realtà è molto più banale, e cinica: dal momento che le prime donne consapevoli della necessità di difendere i propri diritti appartenevano al partito socialista, per scelta politica probabilmente si preferì annacquare questo dato creando la leggenda molto più neutra e innocua della commemorazione delle operaie morte. Anche se indubbiamente, il primo Women’s Day si celebrò nel 1910 proprio in un teatro americano in occasione di una riunione del partito socialista, complice l’assenza del consueto oratore uomo, che permise alla donne una sorta di piccolo... colpo di stato, per poter così finalmente esporre e discutere liberamente tra di loro delle esigenze e delle speranze di quella che per troppo tempo è stata definita “l’altra metà del cielo”, quasi che essa non potesse aspirare ad un riconoscimento anche terreno.
Dato che lo scopo della Giornata della Donna, lungi dal favorire le finanze di fiorai e gioiellieri, con l’inesorabile commercializzazione consumistica anche di questo giorno, è quello di ricordare alle donne l’importanza, spesso negata, del loro ruolo sociale.
Un ruolo così importante e qualificato da spingere poco tempo fa il governo pakistano, di fronte alla crescita di una classe agguerrita di laureate sempre più inserite profondamente nel tessuto sociale e lavorativo del Paese, alla paradossale scelta di istituire delle “quote azzurre” fra le matricole universitarie, a salvaguardia di una supremazia maschile apparentemente messa in crisi da professioniste più “sgobbone”, preparate e motivate dei loro colleghi uomini. Dato che le donne sanno bene che, quale che sia la strada che sceglieranno, anche a parità di meriti, sarà sempre un po’ più ripida e faticosa di quella dei loro colleghi maschi.
Un ruolo che è giusto e doveroso periodicamente rianalizzare e riportare all’attenzione generale, dato che se molta strada è stata fatta, almeno altrettanta resta ancora da fare, se è vero che la Comunità europea ha anche recentemente ribadito tra i propri obiettivi per un nuovo slancio per l’Europa sociale ed economica proprio il raggiungimento dell’abolizione di tutte le discriminazioni sul mercato del lavoro, e la necessità di “favorire concretamente l’aumento del tasso di occupazione femminile (rispetto al quale, ahimè, l’Italia rappresenta il fanalino di coda della UE) e sviluppare politiche in grado di sviluppare la conciliazione fra vita professionale e vita familiare e privata, sia per le donne sia per gli uomini; metter fine alle disparità di trattamento fra uomini e donne sul posto di lavoro, in particolare sotto il profilo retributivo e delle carriere; rafforzare le politiche sociali e fiscali a sostegno della famiglia”.
In perfetta armonia, tra l’altro, con quanto affermato anche dalla nostra Costituzione all’articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”

Se quindi, voi siate uomini o donne, avete scelto di festeggiare questa giornata, fatelo prendendo realmente coscienza del suo autentico significato, e scegliendo di adornarvi con un fiore di mimosa, fatelo ricordando che questo fiore vuole innanzi tutto significare il rinnovamento: obiettivo che si può commemorare una volta all’anno, ma poi si persegue solo grazie a un impegno autentico che prosegue per tutti gli altri 355 giorni dell’anno.

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22 novembre 2007
...e continuiamo a parlare di storia.
Allora, viste alcune considerazioni a commento del post precedente, continuiamo pure a parlare di storia e storiografia.

Andiamo per ordine, dato che mi si chiede “Comunicativamente però non comprendo a chi è indirizzata” la riflessione su storia e memoria. A parte che a capocchia io potrei chiedere a un qualunque blogger perché oggi ha scritto, chessò, del fatto che ha mal di pancia, e potrei ottenere immagino due risposte: perché mi andava di dirlo; perché magari fra chi mi legge c’è qualcuno al quale può interessare la mia salute, e mi sembrano entrambe risposte sensate e legittime.
Così, il primo post era indirizzato ..boh, diciamo per comodità a me stessa, perché non sapevo chi potesse essere interessato a quel tipo di riflessioni, quindi era interlocutorio e buttato al vento: chi vuole se lo acchiappa.
Lo ha fatto Andrea, riportando a sua volta le considerazioni su parte del tema, di un altro storico (a me sinceramente la cosa che colpisce di più è l’interpretazione data da Ginzburg) e allora ho deciso di copi-incollare un pezzo di una lunga conversazione con alcuni docenti universitari, voluta e poi messa anche in Rete qualche tempo fa, dagli studenti della Statale di Milano. Io ricordavo delle considerazioni molto simili fatte da Merlo in occasione di una commemorazione pubblica del Giorno della Memoria della Shoa, oltre a quelle sparse nei suoi libri e nelle sue conversazioni, e in quella lezione ho trovato, dette molto meglio che da me, le cose che volevo esprimere, e che da una parte spiegano cosa sia il mestiere dello storico e quale sia la passione che lo anima, e dall’altra, credo si avventurino senza parere anche sulla valutazione dei doveri civili e sociali che ha l’intellettuale - si tenga conto che Merlo, anche se come racconta va per chiese sin da ragazzino; è uno dei maggiori esperti mondiali di storia dell’ordine francescano ed è uno spirito molto libero, è anche certamente e indiscutibilmente di sinistra.

Quindi quel secondo post nasceva idealmente dalla risposta di Andrea.

Il primo post, invece nasceva da più cose.
Un po’ perché mi pareva che del Capocomico, a partire dal post precedente, si stesse parlando anche troppo, e dato che altri, in altre sedi, continuavano a seguirne la tragicomica saga, non mi pareva grave da parte mia abbandonarlo al suo destino.
Poi c’era anche il fatto che appena in politica succede qualcosa, tipo Berlusconi che dice, dopo la morte di Biagi: poverino, mi spiace tanto, ma però non c’è mai stato nessun *mio editto “bulgaro”* per sbatterlo fuori dalla Rai! chi ha un minimo di memoria sobbalza per la sfrontatezza della bugia e inizia a lamentare l’assenza di memoria storica, che come ben spiega Merlo, è una assurdità: se è memoria, non è storia, e viceversa. Poi di solito, a ruota, si citano o il “la storia è maestra di vita” o il “chi non conosce la storia è costretto a riviverla”, dato che alla fine mediaticamente viviamo sempre nella sagra delle banalità.
Dunque, proponevo un altro possibile slogan, secondo me meno datato e più meditativo, dato che la concezione di storia è un bel po’ mutata, dalla classicità ad oggi come spiega anche Merlo, e anche da ieri a oggi, aggiungerei, se si pensi che le prime cattedre universitarie di storia in Italia sono state istituite se non ricordo male a inizio Novecento e di sicuro solo all’interno del corso di laurea di Giurisprudenza, e si occupavano quindi solo di storia delle istituzioni, cioè di quelle strutture che si sono date norme e caratteristiche giuridiche tali da garantirne la sopravvivenza nel tempo, che più o meno è una definizione accettabile: per il medioevo, ad esempio, solo impero e papato, quindi è evidente la limitatezza dell’orizzonte di una simile concezione.
Poi si è passati a fare la storia “evenemenziale”: dei re, dei potenti, dei “fatti” - quella che è stata scardinata, piacciano o no, dagli storici della scuola delle Annales francese, soprattutto la prima generazione: Bloch, probabilmente il maggior storico del Novecento, Febvre etc.
Lo studio della storia è poi stato introdotto tardi nelle scuole pubbliche, e probabilmente questo rende ragione del fatto che essa sia ancora troppo spesso una materia poco conosciuta e della quale, al di là di una serie di luoghi comuni, si faccia fatica a riconoscere la reale natura e il perché è importante.
Prendiamo la visione, dal mio punto di vista assolutamente assurda e superata, che ne dà lazybones nel suo commento: sinceramente, non c’è un saggio storico che abbia letto (ma che però in genere si trova solo nelle librerie molto grandi, e spesso solo in quelle universitarie, anche se non sempre in realtà sono testi fuori dalla portata di lettura di una persona non addetta ai lavori - e questo non perché non siano di interesse per il pubblico, ma perché non hanno pubblico al di là di quello dei cultori, amatoriali e professionali, della materia: così, senza un criterio critico, si leggono nefandezze piene di omissioni e travisamenti comprati al supermercato, e le opere serie restano privilegio di pochi, con gran dolore degli storici veri) nei quali ci siano quei toni trionfalistici e nostalgici di un passato mitico ai quali si accenna nel suo commento.
Piuttosto, si troverà un saggio di storia della mentalità che analizza il fenomeno che, in una particolare contingenza politica e sociale, come è quella nella quale viviamo, ci sia diffusa una visione così distorta della storiografia, e nel quale magari si ipotizza perché questo accada e a chi faccia comodo che accada.
Io di mio ci posso aggiungere una citazione di Carlo Ginzburg, che secondo me casca a fagiolo, perché in fondo c'è una immensa oralità anche in questa società, anche se mascherata da altre cose, dedicata proprio a questi momenti di favoleggiamento sul passato:
"Nelle società fondate sulla tradizione orale, la memoria della comunità tende involontariamente a mascherare e riassorbire i mutamenti. Alla relativa plasticità della vita materiale corrisponde cioè una accentuata immobilità dell’immagine del passato: Le cose sono sempre andate così; il mondo è quello che è. Soltanto nei periodi di acuta trasformazione sociale emerge l’immagine, generalmente mitica, di un passato diverso e migliore - un modello di perfezione, di fronte a cui il presente appare uno scadimento, una degenerazione."

Certo, se uno legge la storia d’Italia di Montanelli, non saprà mai per esempio delle porcherie, attestate inequivocabilmente da ampia documentazione, perpetrate dagli italiani nelle colonie d’Africa, e questo perché Montanelli, non essendo uno storico, era interessato a far passare sempre e comunque l’immagine preconfezionata di: “gli italiani son brava gente”, che i fatti sovente hanno smentito - gli italiani sono buoni e cattivi come lo sono tutti gli altri popoli, e le loro porcherie, anche se non fa piacere sentirlo dire, le hanno fatte come, chi più chi meno, tutti quanti.
Se però lo stesso lettore prende in mano, per dire, la storia d’Italia di Candeloro, molto oggettiva e neutra nella sua minuziosa ricostruzione storica, ha tutta un’altra panoramica dei fatti.
E dal mio punto di vista, già questo da solo giustificherebbe la necessità di una maggior conoscenza storica da parte di tutti. Se la storia fosse conosciuta non solo attraverso l’intermediazione di persone interessate a divulgarla in modo falsato o parziale, nessuno crederebbe a una stronzata storica come la Padania, per esempio, e questo sicuramente avrebbe delle ricadute sia sul presente sia sul futuro; oppure, di fronte ai gonnellini in tartan dei patrioti scozzesi di Braveheart, ci si sarebbe messi a ridere anziché inneggiare all’accuratezza della ricostruzione delle scene di battaglia del film, ben sapendo che il kilt è una invenzione nazionalista, che risale solo al Settecento, e quindi il personaggio storico di William Wallace non lo ha mai indossato. Invece, la creazione di false tradizioni, per alimentare lo spirito nazionalistico, è stata oggetto di studio storico, questo sì, e a chi la voglia affrontare riserva anche alcune inaspettate sorpresine.
In questo senso, sicuramente conoscere un po’ la storia aiuta a muoversi con più sicurezza e meno ingenuità nel presente, e a farsi prendere meno per il naso....
E’ dalle radici che nasce il frutto: io so solo che più conosci il passato, e meglio comprendi il presente.
Il che, ovvio, non consente di divinare il futuro, ma di vivere con maggior consapevolezza, questo sì, e inevitabilmente questo ha ricadute anche su quella che per brevità chiamo “costruzione del futuro”.
Poi lazybones dice: “Intendo che la storia è un bell'alibi per non andare da nessuna parte. E' un bell'alibi per non guardare il futuro con la voglia di affrontarlo creandolo ex novo”.
A parte che detta così, la creazione del futuro pare più un atto divino che umano (ex novo ovvero sine materia, per il momento, crea solo la divinità, per chi ci creda, non certo l’essere umano) ma - orrore, sì! dato che una delle lezioni più potenti, proprio nel senso della forza con la quale ti colpisce, che si ricava dalla storia, è proprio quella che chi viva guardando al passato, chi è incapace di comprendere il presente, e costruisce i propri progetti sulla colpevole e insulsa nostalgia e/o mimesi del passato, è inesorabilmente destinato al fallimento e alla sconfitta. Conoscere davvero la storia significa sapere che non puoi vivere guardando indietro; la storia della storiografia stessa ti insegna quanto il presente influisca sullo studio della storia: se lo storico non fosse profondamente interessato e consapevole del presente, e del futuro da costruire, non farebbe lo storico, perché è dalla necessità di comprendere il presente che nasce il desiderio di studiare il passato. Non è un caso che la maggior parte degli storici sia schierata politicamente, e in alcuni casi anche attivamente: non mi pare che questo sia segnale di cecità nei confronti del presente e della costruzione del futuro, anzi.
Quindi, se come previsto sussulto, è solo nel riscontrare quanto sia radicata una visione superata e antiquata della storiografia, e quanto il permanere di tale visione sia politicamente, concretamente pericoloso per il presente e per il futuro.
Senza poi tener conto che, nei dipartimenti universitari di Storia, è la storia contemporanea quella più seguita e che affascina maggiormente gli studenti, futuri insegnanti o futuri ricercatori. E la storia contemporanea comprende, è vero, lo studio dell’Ottocento e quindi ad esempio la formazione dello Stato unitario Italia nel 1861 (che aiuta a capire molto del panorama politico che si ha oggi, o almeno per me è così), ma arriva sino alla missione italiana in Iraq... e non si può certo dire che è guardare al passato essere consapevoli degli eventi dell’immediato dopo guerra che fanno sì che oggi i nostri soldati siano lì come alleati degli americani, o che giustificano il fatto che l’attuale governo non aveva il potere costituzionale di opporsi alla caserma NATO a Vicenza, caserma sulla quale si è scritto di tutto, in modo strumentale, tranne quello che andava detto, e cioè che non si trattava di discrezionalità di governi, ma che era la NAZIONE Italia ad essere vincolata da un accordo internazionale militare al quale non poteva sottrarsi senza che questo apparisse, almeno formalmente, come un atto di guerra. Anche se so ci sono persone convinte che gli accordi internazionali hanno indiscriminatamente tutti lo stesso valore della carta con la quale ci si pulisce al bagno...

Non mi dilungo ulteriormente, che già sono stata interminabile: mi pare che ciò che volevo dire sia chiarissimo, ma mi pareva, sbagliando, già chiarissimo nei precedenti interventi. Certo, a patto però di leggerlo davvero e capirlo.

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21 novembre 2007
Memoria per un Maestro
Intitolo così questo stralcio di lezione/conversazione, che ho trovato edita e messa in rete dagli studenti della Statale di Milano, ma che è zeppa di pensieri e considerazioni che ho spesso sentito esprimere con le mie orecchie da Giovanni Grado Merlo, uno dei maggiori medievisti esistenti oggi in Italia, studioso in particolare di storia della Chiesa, perché so che capirebbe il mio ...gioco di specchi e sorriderebbe.
Posso testimoniare che è davvero, oltre che un insegnante piacevolissimo, un Maestro, nel senso alto che si usava dare un tempo a questa parola.
Con un pizzico di presunzione, mi vanto anche di avere, sotto la citazione di Biamonti che conclude il post, e che invece apre il suo libro su san Francesco, una dedica che fa riferimento sia alle "lezioni" che non finiscono mai, sia al nostro grande affetto reciproco.
Riporto qui questo stralcio (lungo, ma vale la pena di arrivare in fondo, credo, altrimenti non lo proporrei), perchè mi pare che con il suo consueto linguaggio, colloquiale e a volte scanzonato, ma sempre precisissimo, Giovanni Grado Merlo possa chiarire e in parte rispondere, meglio di quanto faccia poveramente io, ciò che era sottinteso nel precedente post, e che perlomeno ad Andrea, pareva interessare.


Professore, come ci si approccia alla storia?

"Noi siamo in una società, noi viviamo in una società superficiale, senza spessore, e, quel che è peggio, ci stiamo sottraendo alla dimensione della memoria. Si sa che vi sono parole o espressioni che vanno di moda. All’interno di queste c’è l’espressione memoria storica.
Cosa vuol dire memoria storica?
Vuol dire che c’è una difficoltà, diciamo pure, epistemologica, ma soprattutto una difficoltà di comprensione. La memoria è il ricordo del passato. Invece la storia è la ricostruzione, ovvero la costruzione di ciò che nel passato è rilevante
. Non di qualsiasi cosa: allo storico non interessa come mangiassero i Greci, se non per capire i rapporti nella società e i rapporti culturali tra gli individui. L’informazione in sé – se i Greci adoperassero le mani, i piedi o le orecchie per mangiare – non ha alcun rilievo storico, è una mera (e rispettabile) curiosità. L’esplorazione storica è la ricerca delle rilevanze e delle connessioni, lo studio dei fenomeni del passato nelle loro dimensioni diacroniche e sincroniche e nelle loro relazioni e interrelazioni. Deve essere chiaro comunque che le rilevanze non sono strettamente “oggettive”, ma sono rilevanze dovute a un contesto o a contesti: a opzioni culturali e a opzioni civili, cioè latamente politiche (poiché riguardano la vita delle collettività e, in esse, dei singoli).
D’altra parte, è rischioso e falsante concepire il lavoro dello storico come mera interpretazione: quello la vede in un modo, quello in un altro. Lo storico non produce lavori a tesi: tesi che si confrontano o si oppongono per vedere se alla fine, magari, si trova un accordo. Il lavoro dello storico ha precisi limiti, che ne condizionano e ne connotano l’attività di ricerca.
Quali sono i limiti, gli steccati, i lacci ineludibili, inevitabili, che ha chi di mestiere fa lo storico?
Essi sono rappresentati dai documenti e dalle fonti: dagli uni e dalle altre non si prescinde perché, in sé, sono qualcosa in più persino dei fatti, perché i fatti (quello che i tedeschi chiamavano ciò che è realmente accaduto) noi sappiamo essere difficili da stabilire. Basta l’esempio classico di un incidente stradale a proposito del quale si facciano parlare quattro testimoni: ognuno dice una cosa un po’ diversa dell’altra. Dei fatti lo storico ha la testimonianza o, meglio, le testimonianze delle fonti e dei documenti. Secondo la visione tradizionale le fonti sono le testimonianze largamente letterarie; i documenti sono degli atti redatti da un notaio o da una cancelleria.
Un tempo si diceva che le fonti fossero la coscienza degli avvenimenti, mentre i documenti la testimonianza dei fatti. Oggi questa visione è un po’ messa in crisi, non perché le fonti non siano la “coscienza” dei documenti, ma perché i documenti stessi non sono la mera registrazione notarile degli avvenimenti, dei fatti. Per questo i più raffinati tra gli storici di professione, prima del contenuto del documento o della fonte analizzano la fonte o il documento in sé, come testimonianza di se stesso.
Questo, da una parte, per evitare di prendere cantonate esegetiche ed euristiche e, dall’altra, per mettere in giusta luce la produzione, la genesi di un documento o di una fonte.
Tutto ciò porta a fare un’altra domanda, almeno per le epoche vicine a noi: ciò che è giunto sino a noi, è giunto casualmente o no? Anche nelle fonti e nei documenti bisogna distinguere attentamente ciò che è programmato per durare nel tempo, ciò che è collocato in posizioni “per durare” nel tempo: per esempio, se un ente monastico o ecclesiastico aveva un patrimonio fondiario, conservava i documenti che attestavano i suoi diritti; se qualcuno si arricchisce in qualche modo e compra uno, tre, cinque, settanta alloggi, i documenti che dimostrano il possesso li conserva gelosamente, perché se il suo inquilino dice “Questo alloggio è mio”, allora si può tirare fuori il documento attestante la proprietà eminente. Non a caso esiste una memoria “individuale”, ma c’è anche una memoria “istituzionale”: i notai conservano una memoria che non è la memoria storica, è la memoria “documentaria”, giuridica. Quindi esistono più memorie: una memoria documentaria”, una memoria “mentale” e una memoria “materiale”.
La memoria mentale è il “racconto”: una modalità di trasmissione e di ricostruzione che andava di moda quando c’era una sinistra un po’ più forte e diversa di adesso, che diceva: “Dobbiamo fare la storia della classe operaia”. Allora si andava dal vecchio militante e gli si chiedeva: “Ehi, compagno, che cosa ti ricordi dello sciopero del 1920?”, “Non ti ricordi che succedeva questo?”, “Ti ricordi che i tuoi compagni dicevano questo e quello?”… e così si faceva la storia “orale” della classe operaia.
Questo per dire di stare attenti, poiché i documenti documentano; ma il meccanismo della produzione testimoniale-documentaria non è lineare e ingenuo, pur essendo di grandissimo interesse e molto più complicato di quel che sembra.
Io che mi sono occupato per tanto tempo dei processi inquisitoriali, mi sono dovuto rendere conto che lì ci sono fatti di mediazione infinita, e, leggerli in modo sprovveduto, è approssimativo e ingannatore. Così ci si avvicina alla ricostruzione storica. Ci si avvicina soprattutto con la voglia di sapere, di conoscere odori, sapori, colori di uomini e donne del passato. Io credo che tutto ciò sia assai difficile da inventare, da trasmettere, perché ognuno ha, ha avuto la sua storia personale, la sua vicenda: dove è nato, cosa ha fatto, quali oggetti aveva con sé oppure che cosa gli piaceva.
Quando avevo quindici-sedici anni, mi venne regalato un motorino. Così, mentre i miei compagni di scuola - con cui avevo fatto il Ginnasio ed avrei fatto il Liceo – in agosto andavano in vacanza, oppure dormivano, oppure bighellonavano sotto le piante, io in pieno agosto prendevo il mio motorino e andavo a cercarmi le chiese di campagna, a tentare di capire che cosa rappresentassero, a vedere come fossero fatti i fossi, a vedere se ci fossero affreschi.
Il rapportarsi col passato ha anche la dimensione che è stata indicato con il termine di privilegio sciamanico. Lo sciamano è diventato di moda qualche anno fa in Italia, in Europa, in America, grazie non solo agli antropologi. Lo sciamano è lo stregone del villaggio, è una figura importante, il mediatore tra i vivi e i morti, tra il mondo al di qua e il mondo al di là. Lo sciamano di solito va in trance e, mentre il suo corpo è in un luogo, egli è da un’altra parte: il suo spirito è un elemento di equilibrio fra l’al di qua e l’al di là, fra vivi e morti.
Similmente lo storico è un mediatore tra i vivi e i morti.

Chi si occupa di storia – salvo che di storia contemporanea, anche se con tutti i morti che ci sono al giorno d’oggi mi sembra che ci si occupi solo di morte – si occupa di coloro che non ci sono più, e mai più ci saranno. Per cui, se uno è un po’ sensibile, tutto ciò dà anche la sensazione di essere un demiurgo, di far rivivere le persone del passato (che così si fa presente).
Il rischio dello storico, dunque, è di fare gli uomini e le donne del passato a propria immagine e somiglianza, vale a dire, di ricostruire il passato secondo i sistemi di pensiero, la visione del mondo, i valori che egli ha. È questo il grande pericolo, alle volte inconscio, cioè non voluto, considerando che lo storico – se non è un freddo e staccato entomologo – vive di passioni, si occupa di uomini e di donne “in carne e ossa” e non può analizzarli come se si mettesse con una telecamera a riprendere un formicaio o un alveare. Deve avere così un’empatia, come un distanziamento dall’oggetto che studia, poiché è chiamato anche a capirlo.
Se io non ho la minima sensibilità al fenomeno religioso, come posso ricostruirlo e riproporlo?
Se a me dei soldi non importa proprio niente, non mi metto a studiare i banchieri fiorentini del Trecento… Per converso, non per questo lo storico deve essere banchiere! Tuttavia deve avere una sensibilità particolare: se a me la musica non piace, non faccio il musicologo; se io non distinguo un “do” da un “re”, meglio che non faccia il musicologo per rispetto degli altri e per rispetto dell’oggetto da conoscere. Quindi, l’avvicinamento, l’approccio alla storia, al passato che si fa storia, è la grande operazione che spetta a chi ha interesse, passione e conoscenza (di tecniche e metodi di indagine).
È necessario distinguere il concetto di passato da quello di storia, perché il passato è passato, cioè cose, fatti, pensieri che sono avvenuti e non avverranno più. Come pensavano i Greci e i Romani, è la differenza che c’è tra res gestae e historia rerum gestarum, cioè tra avvenimenti in quanto tali – ammucchiati nell’armadio o in cantina – e invece chi, quegli oggetti della cantina, riporta alla luce, cerca di spiegarli, cerca di connetterli, e dunque fa storia.
Per l’Occidente tutto è ancora più complicato perché la visione prevalente del mondo, sino a pochi anni fa, era la visione cristiana. La religione cristiana è una religione storica, che pretende di essere storica, perché dice che un evento ha segnato e segna in modo inesorabile, in modo immenso, la vicenda dell’umanità, cioè l’incarnazione di Gesù detto il Cristo: in una cultura millenaria, esiste la certezza di un evento che cambia la destinazione della vicenda umana.
Se questa visione è stata per lungo tempo egemone, si capisce che importanza assuma il passato visto alla luce di una storia finalizzata. Per lungo tempo la historia, nella concezione cristiana, coincideva con la historia salutis, cioè la vicenda umana coincideva con la storia della salvezza.
La historia salutis è indubbiamente da collocarsi in un contesto che oggi non c’è più.
Sappiamo tutti benissimo che cosa è avvenuto nel Novecento. Non si può nascondere che ci sono stati i campi di sterminio, la bomba atomica sui Giapponesi… non si può negare che il Novecento sia stato il secolo più violento della storia dell’umanità. Questo, per esempio, ha messo completamente in crisi il concetto di “progresso”: quello che aveva indirizzato, aveva sospinto l’historia salutis, era diventato “laicamente” la “storia dei progressi inarrestabili dell’umanità”. Oggi, nel bene e nel male, i progressi, per lo più tecnologici, ci sono. Però complessivamente il progresso “positivistico” (tra cui il sogno del comunismo) è morto. Allora, noi ci troviamo davanti a una visione del mondo disillusa. Non abbiamo più illusioni sull’umanità, avendo conosciuto le violenze e le aberrazioni più totali.
Se historia salutis è un problema che lasciamo ai teologi, lo storico di che si occupa?
In primo luogo non si occupa del problema di Dio, non deve capire se Dio esista o non esista; ma, nel suo mestiere, è assolutamente importante che analizzi coloro, le istituzioni, gli individui, gli uomini e le donne che hanno vissuto credendo che Dio esista, non trattandoli come illusi, “alienati”, oppure ritenendoli “tutti magnifici santi”. Allo storico importa capire quale significato abbia avuto per quegli uomini, per quelle donne, per quelle istituzioni, credere in Dio e quale tipo di “qualità religiosa” essi abbiano proposto. Nel mondo degli uomini e delle donne è possibile distinguere la qualità nelle esperienze intellettuali e spirituali. Nelle esperienze religiose c’è un’articolazione di “qualità”, come c’è nelle esperienze musicali, nell’uso del computer. Ecco, lo storico contemporaneo, cioè noi che ci occupiamo del passato, deve capire quella “qualità”.
Prima di dare la parola ai presenti, volevo leggere un testo di eminente valore simbolico, un testo che è di Davide Van De Sfroos, uno che si presenta come musicista e cantante, ma che in verità è un notevole letterato e poeta. Il mio volume, Nel nome di san Francesco, finisce con una citazione da una canzonetta/poesia intitolata Pulenta e galena fregia Polenta e gallina fredda), che qui riportiamo in traduzione italiana dal dialetto del lago di Como:

«... e la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria.
Sulla balaustra anche il ragno richiama il quadro della sua storia.
La ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva;
ma tante volte ha troppi buchi ed è tutta da rammendare.
La finestra sbatte le ali, ma sa che non può volare,
e le stelle hanno la faccia lucida come gli occhi della nostalgia.
In questa stanza senza nessuno guardo lontano e mi vedo in faccia.
In questa stanza di un altro tempo i miei fantasmi lasciano la traccia».


A questo punto si potrebbe dire: “ma che cosa c’entra questo con la storia”? C’entra! Questo testo non è altro che un trattato sottile, intelligente, politico, di storia, che dà molte indicazioni in grado di sollecitare il cervello e la fantasia di chi legge e ascolta.
Innanzitutto, la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria: questo vuol dire che la vita, anche la ricerca, non sta mai ferma, perché nel momento in cui la ricerca è ferma, è morta. Poi c’è la consapevolezza che le acquisizioni hanno dei precisi limiti strutturali (il ragno che ricama il quadro della sua storia e la ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva): alla fine ci si accorge – ed è una consapevolezza esplosiva – che anche la miglior ricerca che abbiamo fatto, è ancora piena di buchi o perché le fonti non ci danno filo o perché non siamo riusciti a tesserlo. La consapevolezza di quello che abbiamo prodotto è che si tratta di qualcosa di ineluttabilmente superabile, anzi, necessariamente superabile: se fosse insuperabile, vorrebbe dire che non esiste più la ricerca storica.
Secondo certi principi scientifici, le discipline cosiddette sperimentali sanno già che a determinate condizioni avviene una certa cosa.
Noi storici, invece, non possiamo mai riprodurre le stesse condizioni né possiamo esser certi che avverrà la stessa cosa, perché la vita non sta mai ferma, ed è la condizione della nostra libertà. (il che è anche il motivo per il quale la vecchia "storia maestra di vita" non ha più seguito, come dicevo...nota della Parda) Se non fosse così, la nostra vita sarebbe finita. Se ci fosse la certezza della previsione – come c’è quando io costruisco una serie di ingranaggi – la vita non varrebbe più la pena di essere vissuta: mentre è volontaristicamente certo che la vita vale la pena di essere vissuta!
La seconda strofa è dedicata alla condizione dello storico e dell’intellettuale: l’intellettuale e lo storico sbattono le ali, ma sanno di non poter volare (tanti intellettuali e storici cercano di volare attraverso i mezzi di comunicazione di massa, attraverso la loro vana gloria, attraverso la violenza e la supponenza che ancor più tragicamente non consentono di volare verso l’alto).
Nel nostro lavoro c’è anche questa dimensione di melanconia perché, comunque, si ha la consapevolezza che il tempo non tornerà mai più: è quello che gli esistenzialisti dicevano l’inesorabile passare del tempo.
C’è infine la dimensione solitaria
. Mi chiedo: perché io insegno volentieri? Risponderei: per interrompere la solitudine.
Il mio mestiere, se fatto bene, comporta un sacco di ore di solitudine (per questo, tra l’altro, sono grato ai musicisti che mi tengono compagnia con la loro musica). Si è soli a lavorare. Per cui quando possiamo incontrare gli altri, vivere in mezzo agli altri, dà una gioia infinita la possibilità di comunicare i risultati della nostra ricerca. E poi ogni storico, come ogni persona più o meno sana, nei momenti di solitudine ha i suoi fantasmi, quei fantasmi che prendono corpo quando si sente la responsabilità di quello che si scrive (e si dice) . Si deve esser ben certi di quello che si è scritto, si deve esser preoccupati che gli altri capiscano i procedimenti messi in atto: per un senso di democrazia autentica, di rispetto per gli altri.
Si può scrivere anche “difficile”. Ci sono procedimenti che necessitano di un linguaggio che inevitabilmente non è il linguaggio quotidiano; ma questo senso di responsabilità morale, anche se la parola oggi sembra spaventi, vuol dire che non si scrive per se stessi. Il libro, i libri sono fatti affinché gli altri li leggano: questa è la responsabilità.
Se metto in mano una bomba a una persona e gli dico di “portarla, per piacere, a mia zia”, non posso dirgli: “guarda che hai un vassoio di dolcetti”. Devo dirgli: “questa è una bomba”.
Anche nel lavoro dello storico ci sono argomenti che sono “dolcetti” e argomenti che sono “bombe”, che vanno maneggiati con cautela.
Una volta, quando c’erano le classi definite, quando c’era la società aristocratica eccetera, all’epoca della mia gioventù, usciva un libro di storia: lo leggevano in quattro e diveniva patrimonio di un ambiente. Oggi, invece, esce un libro, lo leggono in quattrocento, ma nessuno sa che cosa sia e quale valore abbia (a parte quelli che non leggono niente, perché tanto hanno altro da fare). Eppure non rinunciamo a scrivere e continuiamo a credere che a qualcosa servirà. E cerchiamo di scriverlo con cura. La cura della scrittura appartiene a un modo di fare il mestiere dello storico, che ha l’esigenza di farsi capire e di rispettare chi leggerà. Poi, naturalmente, qualcuno dice o dirà: “questo imbecille che cosa scrive?”. Magari lo dirà fra due secoli. Quando leggeranno i miei testi, forse si dirà: “Ma c’era un erudito di Pinerolo che ha fatto un libro pieno di fraintendimenti esegetici ed euristici!”. Il rischio c’è, soprattutto se uno ha il piacere di ricercare e di scrivere.
Per concludere, vi devo leggere un altro piccolo brano di uno scrittore italiano contemporaneo, Francesco Biamonti, morto quattro anni fa. Lo traggo da un suo libro che si intitola Attesa sul mare:
«Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno» .
Il brano esprime una metafora su cui non vi trattengo, ma che la lascio alla vostra riflessione. Io estraggo una specie di slogan personale: non voglio convincere nessuno. Per cui se voi invece adesso avete intenzione di convincere me, ne sarei felicissimo. Se volete farmi domande, cercherò di rispondervi.

Maggio 2005

(Di Van de Sfroos, che anch'io ascolto con piacere, anche perché i miei antenati erano "Laghée", scelgo invece un altra canzone, L'omm de la tempesta, e la metto qui)

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25 giugno 2007
Il Cavaliere verde
Nelle prime pagine dell’Yvain o il Cavaliere del Leone di Chrétien de Troyes, romanzo sul rapporto fra l’ideale e la realtà in amore, c’è questa consapevole affermazione:

Io sono, lo vedi, un cavaliere
che cerca ciò che non può trovare:
molto ho cercato e nulla trovo
.”

Significativamente, la sceglie Franco Cardini come esérgo di un suo breve saggio dedicato al senso dell’«aventure» nella tradizione cavalleresca. La potrei scegliere anch'io, se andassero ancora di moda i motti araldici... perché di certo sono alla ricerca di "qualcosa" che non ho ancora trovato, e quel che è peggio, che comincio a pensare, non troverò mai. Ma immagino sia un destino comune.Comunque, nel romanzo di Yvain, chi cerca è Calogrenant, che alla corte di Artù sta raccontando del suo incontro – dagli esiti non proprio brillanti - con l’Uomo Selvaggio, che fa la guardia alle bestie della foresta e «d’avventure non sa nulla e mai ne intese parlare».

Sull'"Uomo Selvaggio" signore delle bestie, solitamente accostato nel suo ruolo infero, a Odino e alla sua wilde jagd, la caccia selvaggia "guidata dal cacciatore spettrale accompagnato da cani, cavalli, cervi e talvolta da defunti" (Stefano Gasparri - "La cultura dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane", Spoleto, 1983) ha di recente scritto pagine affascinanti lo storico e amico Paolo Galloni, alla ricerca sino al Paleolitico di un archetipo antichissimo, sulla base di teorie ardite, ma molto intriganti, nel libro di prossima uscita "Le ombre della Preistoria. Metamorfosi storiche dei Signori degli animali." per le Edizioni dell'Orso. Ho avuto il privilegio di sfogliarlo in bozza, e lo consiglio decisamente a chi ami questi temi.

Ma tornando alla narrazione di questa avventura di Calogrenant alla tavola del re, da essa inizierà l‘avventura di messer Ivano, cugino germano di Calogrenant, che per vendicarne l’onta, subìta presso una magica fontana, incontrerà il proprio destino umano: fatto d’amore - trovato e perduto - di superficialità, smarrimento, follia ed espiazione, per poter raggiungere quell’evoluzione personale che gli consentirà infine di ritrovare la sua dama e la propria identità. Il tutto svolto solo su di un piano umano, perché siamo ancora di fronte ad una definizione umana della cavalleria, e di questa cavalleria umana Gawain sarà il fiore.
Dopo di lui, altri valori e altre ricerche prenderanno forma nell'immaginario, e si preparerà la strada per il cavaliere perfetto, il figlio di Lancillotto, Galahad, destinato a chiudere, con la sua straordinaria "aventure", l'età della cavalleria - ovvero la queste del Graal.
Della storia di Ivano, anche se probabilmente nella versione tedesca di Hartmann von der Aue, un ignoto pittore ha lasciato testimonianza con uno dei primi esempi di ciclo pittorico di carattere profano di epoca medievale. Sono gli 11 bellissimi affreschi di soggetto profano, datati all’inizio del XIII secolo, che decorano le pareti della sala da pranzo del castello di Rodeneck, che venne costruito poco più di cinquant’anni prima da Friedrich von Rodank e secondo la tradizione è l’unico castello dell’Alto Adige che non venne mai espugnato. Cosa peraltro non difficile da credere, vista la sua impervia collocazione.

Nella piccola stanza il laido aspetto del Wilde Mann – un villano sconcio e orrendo a dismisura, lo descrive Chrétien – con la sua mazza nodosa e una criniera fiammeggiante di capelli; il rosso e l’oro dei cavalieri che combattono presso la fontana; lo sguardo cieco dei servi di Aschelon, di Laudine e della sua ancella (il colore usato dall'ignoto affrescatore non ha evidentemente retto al passare del tempo) regalano emozioni difficili da descrivere, che accompagnano il visitatore che si sporga dal dirupo sul quale s’affaccia ciò che verosimilmente accoglieva il piccolo verziere del castello. E la mente corre a un altro castello, a un’altra tavola imbandita...

Era il re a Camelot per il Natale,
molti signori con lui, belli, i migliori,
tutti i nobili fratelli della Tavola Rotonda
in splendida festa e spensierato piacere.
...Quando l’Anno Nuovo era fresco,
ch’era appena venuto,
quel giorno la compagnia alla tavola alta
fu servita del doppio,
dopo che il re venne in sala coi cavalieri,
finito il canto nella cappella.
...Ma Artù non voleva mangiare
finché tutti non eran serviti,
... e un’altra abitudine così gli dettava:
impegno d’onore aveva preso di mai mangiare
in un giorno come quello festivo
finché non gli fosse narrata
la strana storia di qualche avventura,
di qualche gran meraviglia cui prestar fede,
di antichi o di armi o di altre avventure...
Un altro rumore nuovissimo si fece veloce vicino,
che avrebbe permesso al re di mangiare.
Perché la musica quasi non era finita
e il primo piatto servito, che sulla porta
apparve di furia un uomo tremendo,
della terra il più grosso e il più alto...
fiero nel portamento e ovunque verde brillante.


Ma questa è un’altra storia: quella di ser Gawain e del Cavaliere verde.
Se però non la conoscete, dedicateci qualche ora, perché questo poemetto d'ignoto, che ci è giunto in una sola copia databile approssimativamente alla fine del Trecento, è fra le opere più belle della letteratura anglosassone medievale: parola di Tolkien, che quando non annegava le sue preoccupazioni politiche e finanziarie, nelle complesse vicende che martoriavano la Terra di Mezzo, insegnava filologia anglosassone, e storia e letteratura inglese medievale a Oxford, oltre a conoscere il gotico e l'antico finnico, a cui dedicò durante la sua carriera accademica molti seminari, e alle cui tradizioni ha certo attinto nel creare la sua opera narrativa.

(Oh, fosse dato anche a noi, di non poter nutrire il corpo, se prima non si siano saziati spirito, fantasia, intelletto ed anima...questi sono i momenti nei quali ho la netta sensazione che questi nostri antenati, privi di Freud e Jung, la sapessero in realtà un bel po' più lunga di noi!)

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11 giugno 2007
Guillaume le Maréchal au le meilleur chevalier du monde
Uno degli ultimi libri di Duby, lo storico francese vicino al movimento storiografico de Les Annales, al quale però non aderì mai, essendo più affine all’approccio “sociale” di Jules Michelet, nasce da una fonte letteraria , una fonte straordinaria: 127 fogli di pergamena per oltre 19 mila versi, opera di Giovanni il Troviero, che da varie note nel testo appare essere stato testimone diretto di gran parte dei fatti che narra: come io vidi... dico questo perché lo vidi...
“Guglielmo il Maresciallo” venne pubblicato nel 1984, ed è uno straordinario, unico esempio di storia - serissima - narrazione. L’avventura del cavaliere, come Duby sottotitola il suo libro, apre infatti uno squarcio inedito su una classe sociale e sulla propria autocoscienza o meglio: auto rappresentazione, che altrimenti sarebbe impensabile conoscere. Molti infatti scordano che la maggior parte dei romanzi cavallereschi, in particolare del ciclo arturiano, nascono in ambienti vicini alla Chiesa, e rispondono alla precisa volontà di “addomesticare” una classe sociale violenta e prepotente, costituita in maggior parte da cadetti di importanti famiglie alla ricerca di bottino e di un buon matrimonio che concedesse loro di uscire dalla condizione di juvenes per entrare in quella, ben più prestigiosa, di senior. Una classe sociale pericolosa e destabilizzante, quindi.
Quella della Chiesa è un’opera che inizia nel X - XI secolo in Francia con il movimento delle paci di Dio, quando le autorità ecclesiastiche, in mancanza di un altro potere centrale in grado di farlo, si assunsero la responsabilità di cercare di garantire quella pace nel regno che sarebbe stata fra i doveri del re, e continuarono poi con le crociate e la creazione di una immagine cristiana (fittizia) della cavalleria che ne moderasse gli eccessi, fornendo un codice di comportamento moralmente e socialmente accettabile.
Eppure “Gugliemo il Maresciallo” ha sollevato molte discussioni in ambito storiografico: non ha note a piè di pagine, non ha bibliografia, insomma non rispetta nessuno dei crismi che caratterizzano il saggio storico canonico, pertanto tale classificazione gli è stata spesso negata e questo bel libro resta un ibrido difficile da catalogare. A mio avviso, al di là della gradevolezza e facilità di lettura, che consentono anche a chi non sia uso a frequentazioni storiche la fruizione di questo testo, L’Avventura del cavaliere - si ricordi: il miglior cavaliere del mondo! - è un bellissimo saggio storico, che ci conduce dentro fenomeni culturali e antropologici, che usualmente gli storici possono osservare solo dall’esterno, quando addirittura non devono accontentarsi di ipotizzarli. Un episodio unico, figlio dell’eccezionalità della fonte dalla quale nasce, ma che illustra splendidamente un modo “altro” di fare storia.
In effetti, la nascita di questi nuovi poteri locali, a cavallo dell’anno Mille, legati alla figura del miles e all’incastellamento, sono il fil rouge di tutta la produzione storiografica di Duby, a partire negli anni Cinquanta dalla sua ben nota tesi di dottorato sul Mâconnais fra XI e XII secolo. Egli si muove quindi, con una semplicità che non deve ingannare, in una materia non facile , ma che gli è propria, coronando in un certo senso una vita di ricerca.
L’avventura del cavaliere non è altro che il lungo poema dedicato alle gesta di Guglielmo, voluto espressamente dal figlio come monumento a ricordo del padre, anche se tale poema non parve conoscere gran fortuna: ne vennero trascritte solo poche copie, principalmente ad uso di familiari del Maresciallo, in occasioni di speciali eventi familiari, quali i matrimoni dei figli. Così, del Maresciallo, spiantato figlio cadetto che alla fine della sua vita aveva raggiunto la posizione di reggente del regno d’Inghilterra, in quanto tutore del novenne Enrico III il Giovane, figlio di Giovanni Senza Terra, forse sappiamo più noi della generazione che lo seguì.
La sua vicenda ci serve per introdurre un problema storiografico che da March Bloch in poi affascina gli storici: la nascita e il significato della nobiltà di sangue, unita al mito della cavalleria. Infatti, nel più antico diritto barbarico, non esisteva l’ereditarietà di titolo né del possesso del feudo, ovvero (in questo contesto) della terra la cui proprietà eminente restava del re, che quindi ne poteva disporre, affidandola a suoi fedeli prescelti, e ne rientrava in possesso alla loro morte. Invece, a cavallo dell’anno Mille iniziano a nascere nuovi poteri locali che accampano nuovi diritti nella direzione dell’ereditarietà del feudo e mano a mano si sostituiscono al potere regio in declino e rendono il castello il perno della nuova organizzazione sociale del territorio.
Una organizzazione frammentata, che si appropria di prerogative e diritti un tempo appannaggio esclusivo del re, e si incardina sulla protezione concreta offerta dal castellano a quanti vivano nel circondario.
Proteggere e dominare, s’intitola significativamente un saggio di Aldo Settia dedicato proprio all’incastellamento e al popolamento nell’Italia medievale, e nulla potrebbe meglio sintetizzare il senso della fortificazione che accompagnò, a cavallo del Mille, l’ultima grande invasione barbarica, quella degli Ungari. Mentre nelle città le fortificazioni furono spesso volute dai vescovi, uniche autorità cittadine rimaste a disposizione dello sgomento del popolo, fortificazioni che in effetti spesso furono in grado di fermare l’azione devastatrice degli Ungari, in cerca soprattutto di prede facili da razziare. Sarà per esempio il caso di Bergamo, risparmiata per la inviolabilità delle sue mura.
Le posizioni classiche al riguardo di nobiltà di fatto e nobiltà di diritto vengono per la prima volta affrontate da March Bloch, che immagina che la cavalleria di diritto sia una nuova cavalleria, che si oppone all’antica nobiltà di fatto, creando così una nuova nobiltà. La nuova visione, portata da Duby, è che la cavalleria di diritto nasce come evoluzione della cavalleria di fatto all’incirca nell’anno Mille e nel secolo seguente. Fra queste due posizioni, nonostante le riflessioni convincenti di Flori, si dibatte ancora.
Presso le popolazioni barbariche, il diritto di portare le armi era prerogativa degli uomini liberi, in contrapposizione agli schiavi. Ogni libero faceva parte, all’eventuale chiamata, dell’esercito del re, e dall’opera di Tacito (forse non al di sopra di ogni sospetto) scopriamo che i giovani Germani acquisivano lo status di adulti proprio attraverso una cerimonia che prevedeva la consegna loro delle armi, così come agli adolescenti romani veniva consegnata la toga virile. Nasce quindi il mito di una specie di rito iniziatico, di passaggio, che non a caso affascina e occupa gran parte della produzione storiografica sull’argomento da parte di Franco Cardini, ed esiterà nel cosiddetto adoubement o investitura, cerimoniale del quale ben presto s’impadronirà la Chiesa.
Quel che è certo è che con il medioevo muta il senso militare della cavalleria in seno all’esercito, rispetto a quello che ne era stato il ruolo a Roma. Dall’Est, da quei paesi immaginati come patria dei biblici e mostruosi Gog e Magog, si gettano sulle fertili terre europee uomini che combattono a cavallo, imponendo nuove forme alle armi e allo stile di combattimento. Solidi sulle loro cavalcature, anche grazie a bardature nuove, essi usano archi micidiali, e costringeranno i guerrieri europei a cimentarsi con un nuovo uso della lancia, che diviene più lunga e sposta eccentricamente la propria impugnatura, ad usare spade più pesanti, e ad allenarsi a creare gruppi affiatati che ,con la forza dirompente dei loro cavalli, in presenza di terreni favorevoli, siano in grado di spezzare le linee nemiche preparando l’azione dei pedites o fanti.
Da semplice funzione di staffetta, lentamente la cavalleria si trasforma in corpo d’élite, “di cui signori e principi detengono il comando”.
Nell’arazzo della regina Matilda , voluto per celebrare la vittoria normanna di Hastings nel 1066 e quindi la conquista dell’ Inghilterra da parte del duca Guglielmo, possiamo chiaramente individuare la trasposizione visiva della trasformazione di questo uso militare della lancia, che sfrutta la forza nuova offerta dalla cavalcatura e dal peso che il cavaliere può imprimere al colpo, micidiale, sferrato dall’alto al basso, sfruttando come forza penetrante anche lo slancio della cavalcatura. Cambiano, rinforzandosi, elmi ed armature, gli scudi s’ingrandiscono e assumono prevalentemente forme a mandorla o a goccia che permettano una difesa anche dal basso, le spade si allungano e divengono più pesanti, uscendo dall’esclusività dello stretto corpo a corpo...
Il cavaliere, così come siamo abituati a pensarlo, sta prendendo forma.
Ma lentamente chi pratichi il mestiere delle armi, il cavaliere, si trasforma anche in nobile. E la sua è una nobiltà di sangue, ereditaria, non più di fatto, esaurita nell’esperienza del singolo e nel suo rapporto con il suo signore.
All’inizio, sino a tutto il XII secolo, la professione di cavaliere è aperta a tutti coloro abbiano i mezzi, economici e fisici, per esercitarla, e in taluni casi essa è un autentico mezzo di promozione sociale, attestando la presenza di una minima fluidità interclassista. Paradossalmente, abbiamo infatti anche esempi di cavalieri contadini - è la famosa comunità nata attorno al lago Paladru in Francia - o cavalieri di condizione servile; le discriminanti sono la robustezza fisica e il possesso di armi e di un cavallo, che col passare del tempo diverranno sempre più perfezionati (si svilupperà anche la selezione e l’allevamento di nuove razze equine) e costosi.
A partire dal XIII secolo si ha invece la chiusura dell’acceso allo status di cavaliere, status che è oramai è riservato solo a chi sia figlio di cavaliere, e per dirla con Jean Flori “la nobile corporazione di guerrieri d’élite diviene corporazione di guerrieri nobili, e via via, confraternita d’élite della nobiltà” ma ormai siamo alla fine del medioevo, e l’istituzione si avvia ormai a divenire mito, consacrando se stessa.

Guglielmo, per quanto ci è dato sapere, visse approssimativamente fra il 1145 e il 1219; la sua è la vita di un cadetto, che essendo escluso dalla linea agnatizia, deve provvedere da sé alla propria sistemazione. Come peraltro ogni giovane cavaliere, che cioè, come ci ha insegnato Duby, non si sia ancora sposato e soprattutto non abbia formato famiglia mettendo al mondo un erede: solo in tal modo si conquistava l’ambita posizione di senior, attorno al quale ruotano altri “giovani” cavalieri, ponendo anche le basi per quell’amor cortese nei confronti della dama del signore che, secondo Duby, formava un legame in più fra il senior e la sua curtes. Da bravo cadetto dunque Guglielmo, erede di un maresciallo, ovvero servitore alla corte del re d’Inghilterra, inizia la sua carriera di cavaliere errante con la partecipazione ai tornei.
Questa forma di lotta, che a volte giungeva alla morte dei partecipanti, era condannata dalla Chiesa, come appare in numerosi exempla di predicatori, ma ciò non ne diminuisce il fascino per i giovani cavalieri. Occasione di bottino - il cavallo e le armi del nemico vinto, più l’eventuale riscatto per la sua liberazione quando esso venga catturato - che si srotolava nell’arco dell’anno con un preciso calendario che regolava i flussi degli juvenes fra Francia e Inghilterra, ci permettono di seguire le gesta, più o meno eroiche, dei partecipanti a uno dei topoi leggendari del medioevo. Ne risulta soprattutto polvere e sbruffoneria, una certa grettezza unita a calcolo - vedremo l’accortezza di Guglielmo nel muoversi fra più promesse spose, alla ricerca di quella maggiormente altolocata e ricca - una largesse che appare più sfrontata arroganza che generosità d’animo, in una classe che disprezza il denaro e lo vede solo come strumento per l’immediata soddisfazione dei propri divertimenti e delle proprie esigenze materiali. Siamo quindi ben lontani dal gentile signore di tanta letteratura cavalleresca. La stessa prousse, la prodezza, cuore della cavalleria, è spesso semplice opportunismo camuffato - c’è chi attende i cavalli scossi dei cavalieri abbattuti da altri, oppure scende fresco in campo solo nell’ultimo giorno, per poter così accumulare più facilmente bottino.
Anche di fronte alla morte, non appare quello spirito cristiano che la chiesa vorrebbe contrabbandare: nei rituali della morte del Maresciallo, scarso appare il pentimento di un cavaliere consapevole soprattutto del proprio valore e della propria aderenza ad un codice etico che poco o nulla ha a che fare con quello pretesco. Nei suoi interessi vengono prima la famiglia, la sistemazione delle cose terrene, compresa la sorte del giovane re affidatogli, le eredità e il distacco da quei compagni d’armi che ancora gli siano accanto, nonostante i molti anni passati.
Solo alla fine del distacco dal mondo, dal suo mondo, Gugliemo ricorda che in occasione della crociata nel 1185 s’era promesso all’Ordine dei Cavalieri Templari, nei quali evidentemente riconosce la sintesi dei due princìpi portanti della sua vicenda umana, in quanto nato nella classe dei milites, e quindi condannato alla colpa dal tabù del sangue versato. Quale espiazione migliore, quindi, di quella di donarsi a questo ordine di monaci guerrieri?
Una volta che tutto è in ordine, entrano i preti, e Guglielmo, sfinito da due mesi di agonia, si prepara a morire: rifiuta il cibo, nonostante le cure affettuose dei figli, e attende.
Le sue ultime parole saranno: “Muoio. Vi metto nelle mani di Dio. Non posso restare più con voi. Non posso impedirmi di morire.”
In esse vi è tutto il suo carattere, l’orgoglio di chi sa di essersi fatto da solo giungendo sin là dove nessuno si sarebbe aspettato. Non prega per sé, prega per chi rimane, e di fronte alla morte china il capo solo come lo può fare chi, dopo mille battaglie, sa riconoscer il momento della resa. Non pare avere dubbi circa il suo destino, così come non pare in realtà averne avuti mai: gran cavaliere, Guglielmo, accorto nelle sue cose, ma non certo una testa fina. Più braccio che cervello, e in fondo anche questo è un tassello in più per un ipotetico ritratto di una classe ancora troppo tronfia e paga di sé per porsi dubbi o domande.

"Qu’est-ce que manier les armes?
S’en sert-on comme d’un crible, d’un van,
d’une cogne ?
Non, c’est un bien plus dur travail
Qu’est-ce donc que chevalerie ?
Si forte et si hardie,
et si fort coûteuse à apprendre
qu’un mauvais ne l’ose entreprendre […].
Qui, en haut honneur se veut mettre,
lui convient d’abord entremettre
qu’il en ait été à l’école."


Ma presto le cose cambieranno, e a suo modo, Guglielmo è già il monumento di qualcosa che non esiste più da decenni.

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20 maggio 2007
“Human Resource Exploitation Training Manual”
Lo “Human Resource Exploitation Training Manual” si apre, a differenza del precedente “Kubark Counterintelligence Interrogation”, desecretato dalla Cia nel gennaio 1997 , con questa democraticissima dichiarazione di legalità.

Prohibition against use of force

“The use of force, mental torture, threats, insults, or exposure to unpleasant and inhumane treatment of many kind as an aid to interrogation is prohibited by law, both international and domestic; it is neither authorized nor condoned. The interrogator must never take advantage or the source’s weaknesses to the extent that the interrogations involved threats, insults, torture or exposure to unpleasant or inhumane of any kind. Experience indicated that of use of force is not necessary to gain cooperation of sources. Use of force is a poor technique, yields unreliable results, may damage subsequent collection efforts, and can induce the source to say what he thinks the interrogator wants to hear. Additionally, the use of force probably result in adverse publicity and/or legal action against the interrogator (et. al.), when the source is released. However, the use of force is not confused with psychological ploys, verbal trickery, or other non-violent or coercive ruses employed by the interrogator in the successful interrogation of reticent or uncooperative sources.
(le sottolineature ed evidenziazioni sono fatte a mano)
(...)
Ma, nella Table of contents, troviamo ugualmente la voce:
"Coercive techniques”

Vi prego di ammirare la sottigliezza educativa:
Si ribadisce che "We will discuss some of those coercive techniques that have been used by many, and the reasons why we are against the use of these techniques.”
Però il vecchio testo, anche se cancellato, è ancora perfettamente visibile a pagina A-2
D. SUCCESSFULL "QUESTIONING" IS BASED UPON A KNOWLEDGE OF THE SUBJECT MATTER AND UPON THE USE OF PSYCHOLOGICAL TECHNIQUES WHICH ARE NOT DIFFICULT TO UNDERSTAND. WE WILL BE DISCUSSING TWO TYPES OF TECHNIQUES, COERCIVE AND NON-COERCIVE. WHILE WE DO NOT STRESS THE USE OF COERCIVE TECHNIQUES, WE DO WANT TO MAKE YOU AWARE OF THEM AND THE PROPER WAY TO USE THEM.
Anche se, per una delle ennesime volte
WHILE WE DEPLORE THE USE OF COERCIVE TECHNIQUES, WE DO WANT TO MAKE YOU AWARE OF THEM SO THAT YOU MAY AVOID THEM..

The Theory of coercion
A. The purpose of all coercive techniques is to induce psychological regression in the subject by braining a superior outside force to bear on is will to resist. Regression is basically a loss of autonomy, a reversion. To an earlier behavioural level. As the subject regresses, his learned personality traits fall away in reverse chronological order. He begins to lose the capacity to carry out the highest creative activities, to deal with complex situations, to cope with stressful interpersonal relationships, or to cope with frustrations (Annotato a mano: the use of best coercive techniques is improper ad violate - illeggibile: the law ? - e così la forma è salva!)
B. There are three major principles involved in the successful application of coercive techniques:

Debility (physical weakness)
For century “Questioners” have employed various methods of inducing physical, weaknesses: prolonged constraint; prolonged exertion: extremes of heat. Cold or moisture and deprivation of food or sleep (integrato a mano, ma illeggibile). The assumption to that lowering the subject’s physiological resistance: however, there has been not scientific investigation of this assumption.
Many psychologists consider the threat of inducing debility to be more effective than debility itself. Prolonged constraint or exertion, sustained deprivations of food or sleep. etc. Often become patterns to which a subject adjusts by becoming apathetic and withdrawing into himself. In search of escape from the discomfort and tension. In this case debility would be counter. Productive.
(Annotato a mano: another coercive technique is)to manipulate the subject’s environment to disrupt patterns. Not to create them, (integrato a mano: such as arranging) meals and sleep (corretto a mano: so they *occur*?) irregularly, in more than abundance or less than adequacy, on no discernible time pattern. This (corretto a mano: is done to) disorient the subject and (corretto a mano: illeggibile) destroying his capacity to resist. (A mano)However is successful it cause serious psychological damage and there (?) is a form of torture.

Un’idea ce la siamo fatta: la tecnica è - certe cose, che si dovrebbero fare così, e segue dettagliata spiegazione, non si possono fare perché illegali. Resta l’insegnamento che soprattutto gli ufficiali sud americani, colombiani in testa, se posso permettermi spesso una manica di assoluti psicopatici sadici in addestramento presso la School of the Americas (SOA), oggi ribattezzata Western Hemisphere Institute for Security Cooperation (WHISC), di Fort Benning in Georgia, per i quali soprattutto il manuale fu pensato, hanno sicuramente recepito.

Comunque, per completezza, le altre due “major principles involved in the successful application of coercive techniques” sono:

Dependency
Dread (intense fear and anxiety)

Magari un'altra volta, per allietare il primo pomeriggio piovoso, parliamo della deprivazione sensoriale...

------------------------------------------------------------------
“Perciò l’inquisitore, come saggio medico d’anime, tenendo presenti le caratteristiche, la condizione, la situazione, la malattia, le circostanze delle persone sulle quali o con le quali conduce l’inchiesta, procedendo nell’esame dei fatti agisca con cautela, senza porre né suggerire a tutti nello stesso modo e nello stesso ordine le domande che saranno elencate in seguito; per alcuni anzi non si accontenti di porre tali domande; cerchi insomma di neutralizzare le astuzie degli eretici con il controllo della discrezione così che, con il favore di Dio, dalla sentina e dall’abisso degli errori sia tratto, con mano di levatrice, il serpente avvinghiato nelle sue spire.
Infatti nei confronti di costoro non può essere applicata una regola unica e infallibile, per evitare che i figli della tenebra riescano a prevedere quest’unico e abituale criterio con largo anticipo, e a schivarlo come una trappola nota, o a cautelarsene. Si preoccupi dunque l’inquisitore esperto di cogliere l’occasione giusta sia dalle risposte di chi sta deponendo, sia dalle affermazioni di coloro che accusano, sia dagli insegnamenti dell’esperienza, sia dall’acume del proprio intuito, sia dalle domande e interrogazioni che saranno elencate in seguito, così come Dio suggerirà.”

Da “Il manuale dell’inquisitore” di Bernard Gui

(fra Crimen sollicitationis - a proposito di Inquisizione, e se non sapete cos'è vergognatevi e informatevi e vedete, che male non vi fa, anzi! - e quanto più sopra, con molto altro ... mi sento un po' provata. Ma che altro potrei fare?)
Buona domenica a tutti quelli che non sono imprigionati in una prigione sudamericana o una segreta dell'Agenzia. E soprattutto, che Dio salvi l'America!

Come mi scriveva un anonimo lettore (cosa che non mi ha stupito, dato che so di avere un fedele lettore a Londra
:-)
e di essere linkata anche su AOL-AmericaOnLine) lettore che spero continui ad essere tale, anche se purtroppo io ho letto per una serie di disguidi il suo messaggio troppo tardi per rispondergli, ma mi auguro abbia trovato risposta indiretta in molte altre cose che ho scritto, (allora si parlava del Nicaragua):
"Bush is forever saying that democracies do not invade other countries and start wars. Well, he did just that. He invaded Iraq, started a war, and killed people. What do you think? Why has bush turned our country from a country of hope and prosperity to a country of belligerence and fear.
Are we safer today than we were before?
The more people that the government puts in jails, the safer we are told to think we are. The real terrorists are wherever they are, but they aren't living in a country with bars on the windows. We are
."
Bye.

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17 maggio 2007
The Good Shepherd? (per chi crede che i film siano fonti storiche)
La baia dei Porci è un tentativo di invasione di Cuba avvenuto il 16 aprile 1961, ad opera degli Stati Uniti e di esuli anti castristi, e quindi alla fin fine un atto di aggressione verso uno stato straniero, ideato da Eisenhower e autorizzato, su suggerimento dei servizi segreti, da Kennedy, dato che gli USA avevano molteplici interessi economici nell'isola, che avevano prosperato sotto la dittatura di Fulgencio Batista, ma che dopo la liberazione dalla dittatura ad opera di Castro (1959), erano stati nazionalizzati.
Lo sbarco con tutta probabilità fallì per la superiorità militare dei cubani, meglio addestrati alla guerriglia come forma di combattimento. (per inciso, fatto salvo l'intervento durante la Seconda Guerra Mondiale, non è che l'esercito americano abbia mai brillato per risultati militari, ma lasciamo stare...) Di certo, comunque, l'episodio offrì a Castro il pretesto per allontanare tutti gli americani da Cuba, e spazzare quindi via anche l'intelligence ivi presente (tranne, forse, "Il nostro agente all'Havana", che però mi pare inifluente).

La crisi di Cuba con il blocco degli USA attorno all’isola creò
momenti di tensione, sinché, una volta scongiurata la paura che i sovietici potessero forzare il blocco navale si giunge alla trattativa.
Il 26 ottobre Kruscev scrisse a Kennedy, offrendo la rimozione dei missili da Cuba in cambio della rinuncia, da parte degli Stati Uniti, allo sbarco e all’invasione dell’isola: era un’offerta ragionevole.
Ma mentre si pensa alla risposta da dare, arrivò una seconda missiva che rialzava le richieste, aggiungendo il ritiro dei missili americani in Turchia. Era certamente richiesta più esosa, ma non inaccettabile. Però gli USA non volevano che ci fosse una reciprocità USA-URSS: il diritto degli Stati Uniti a tenere missili contro l’Unione sovietica si vuole che sia distinto dalla questione dei missili cubani.
Il 27 ottobre un U2 americanoviene abbattuto mentre vola/vìola i cieli di Cuba, e tuttora non si sa bene da chi, comunque l’episodio verrà minimizzato.

La scelta americana è di fingere di aver ricevuto solo la prima lettera di Kruscev, e su quella base si raggiunse l’accordo. Separatamente, gli Stati Uniti annunciarono il ritiro dei missili dalla Turchia (e potrebbe essere stata un’azione comunque necessaria, perché si trattava di missili vecchi, ma è anche possibile fosse una questione formale segretamente concordata con l’URSS).
Comunque, la crisi cubana si conclude in questo modo.

Perché questa crisi è importante?
Essa sblocca il meccanismo del negoziato finora usato dalle due superpotenze e fa loro capire che una crisi grave potrebbe scatenarsi anche al di là della effettiva volontà delle parti! E’ la prima volta che questo rischio appare così chiaro e concreto.

Ci si potrebbe chiedere perché i sovietici volessero piazzare dei missili a Cuba.

1. Una ipotesi è quella che volessero compensare la propria debolezza in fatto di missili intercontinentali (gli americani avevano il vantaggio di Von Braun!)e quindi di fatto riconoscessero la superiorità della missilistica americana (ed è la teoria più probabile);

2. oppure si può ipotizzare che volessero creare un deterrente nei confronti di una possibile invasione di Cuba;

3. c’è anche una terza ipotesi, che cioè i missili sovietici vennero messi platealmente al solo scopo di toglierli e quindi avere una merce di scambio nel trattare con gli Stati Uniti e prevenirne l’invasione di Cuba.

Cuba è importante, ormai è un satellite degli Stati Uniti, ma è anche un avamposto comunista in America, anche se nato, in maniera autonoma, dalla lotta contro la dittatura di Batista e lontanissima dal blocco comunista formato da Europa dell’Est, URSS e Asia (Cina etc). Castro si avvicinerà poi col tempo all’Unione Sovietica, anche a causa della totale chiusura degli Stati Uniti.
L’idea è che Cuba possa esportare la rivoluzione comunista nel resto dell’America Latina (ove esistono regimi filo americani) come in effetti avvenne con l'azione di Ernesto “Che” Guevara, anche se in questo caso in realtà si trattò anche di dissenso del "Che" nei confronti del regime cubano.
L’unico caso potrebbe in realtà essere quello del Nicaragua, dove in effetti la Cia mise il naso, pochi anni più tardi, appoggiando pesantemente le forze anti sandiniste.
Sempre per la logica di non annullare le guerre, ma renderle più piccole, immagino. Resta comunque l'affermazione arrogante del diritto americano a fare ciò che gli pare all'interno di Stati stranieri, cosa che normalmente corriponderebbe ad un atto di guerra: è proprio per questo che nasce la Cia - gestire piccole o meno piccole operazioni "chirurgiche" e sporche, delle quali, alla peggio, il Governo può lavarsi farisaicamente le mani.

Si è discusso sui meccanismi di decisione delle due superpotenze, con possibili decisioni diverse prese in centri di potere diversi.
In effetti la costruzione delle rampe di lancio fu troppo plateale per non creare qualche perplessità... così come è strano il fatto che i missili vengano installati prima dei SAM terra-aria, cioè della protezione antiaerea, come sarebbe stato logico, in vista di una protezione delle rampe da eventuali incursioni aeree americane.

Si è quindi ipotizzato che in URSS vi siano state decisioni prese autonomamente da centri di potere non coordinati fra di loro.
Le rampe sovietiche erano costruite in casa loro secondo una certa procedura, quindi ovviamente non richiedevano cautele particolari. L’ipotesi è che la preventiva e anomala installazione dei SAM spettasse ad altro ministero e che la loro mancata installazione si possa spiegare con disguidi nella comunicazione/coordinazione interna.
Anche sulle due lettere di Kruscev, apparentemente autonome e spedite lo stesso giorno, c’è da riflettere: vi furono due mittenti indipendenti fra loro? oppure testimoniano della rapidissima evoluzione della situazione, sotto la pressione di elementi esterni (esercito? Cina?)
La decisione americana di ignorare la seconda lettera mette ovviamente in crisi l’URSS circa l’atteggiamento da tenere, e cioè cosa e quando sconfessare delle proprie affermazioni.
Un’altra possibile domanda riguarda quale fosse la reale autonomia del comando sovietico a Cuba: chi abbatté il famoso U2, i cubani o i russi? La sensazione più forte è che Castro fosse totalmente escluso dalla vicenda, ma a tutt'oggi non si può sapere con certezza; d’altra parte, pensare che fossero stati i cubani vorrebbe dire che essi avevano accesso ai missili sovietici, il che è decisamente allarmante.

Ciò che oggi si è stabilito è che sia gli americani sia i sovietici presero decisioni sulla base di informazioni sbagliate – ad esempio gli Stati Uniti sottostimarono la presenza sovietica a Cuba. Tuttavia, è indiscutibile che entrambe le parti dimostrarono una tale ragionevolezza e moderazione da giustificare il dubbio che in realtà si trattò di un ... teatrino messo in scena a beneficio del mondo. Si sa oggi che in caso di un irrigidimento sovietico nelle richieste avanzate, Kennedy sarebbe stato disposto all’ammorbidimento, accettando la richiesta circa i missili in Turchia, purché con comunicazione all’ONU.
Resta comunque l’evidenza della pericolosità della situazione, e quindi è vitale il dialogo, perché una banale crisi locale potrebbe scatenare una guerra nucleare.
Si crea quindi la cosiddetta “linea rossa” fra Kennedy e Kruscev – una linea di telescriventi per dialogare direttamente, aperta 24 ore su 24.
Inoltre si sbloccano i negoziati per il disarmo: già nel 1963 si ha un primo accordo per abolire i test nucleari nell’atmosfera. Ciò è molto importante, perché è l’inizio di un processo, anche se non viene riconosciuto da tutti, per esempio la Cina non si riconosce nella posizione sovietica e continua i propri esperimenti.

La crisi di Cuba fu un successo per tutte le parti coinvolte, ma soprattutto per Kennedy. Però l’ala dura comunista sovietica e soprattutto la Cina criticheranno l’operato di Kruscev per il compromesso raggiunto, e tale frattura all’interno del mondo comunista diventerà via via più evidente col passare del tempo. Rimane l’impressione che i dirigenti sovietici giudicarono avventato l’operato di Kruscev, che non solo ma anche per questo verrà destituito nel 1964, sia pure non nel modo violento che era divenuto abituale per il passato – e anche questo è un segno della svolta in atto.
Così è chiaro che gli USA a questo punto hanno abbandonato la teoria repubblicana della rappresaglia totale, massiccia (che è al contrario ritenuta pericolosissima, perché non offre opzioni intermedie) per passare a una risposta “flessibile”, che consente risposte proporzionali all’entità delle minacce ricevute, senza dover necessariamente scegliere fra subire o scatenare l’olocausto nucleare! E’ la dottrina teorizzata dal generale Taylor, usata per la prima volta a Cuba, con l’uso del blocco navale come prima risposta. Si ha quindi la rivalutazione delle armi tradizionali e una importante svolta nelle dinamiche che regolano la Guerra Fredda.

E mi pare che di tutto questo il film, anche per ovvie ragioni di sceneggiatura, taccia totalmente. In fondo doveva parlare della nascita della Cia, anche se sceglie di far ruotare quasi tutta l'azione, fra flashback vari, attorno alla crisi cubana e all'evoluzione che essa diede (anche se non se ne parla chiaramente, bisogna saperlo per capirlo)alla Guerra Fredda.

Quanto a Kennedy, il "presidente buono" è una leggenda costruita ad hoc sul personaggio e su quelle che erano le esigenze politiche e populistiche dell'epoca. Oggi si tende un po' troppo a rimuovere il fatto che fu lui a portare gli USA a impantanarsi nel Vietnam, come oggi Bush in Iraq, come uno dei tanti risultati del suo sostegno e incoraggiamento ad aderire alla logica della Guerra fredda. Se gli Stati, e i loro Presidenti, si valutano in base alla politica estera, di buono e umano in JFK non c'è più che in tanti altri presidenti suoi colleghi... in realtà, al di là del mito che tanto ha affascinato, e al quale certo ha contribuito anche la sua morte drammaticamente prematura, si tratta di un presidente con molte più ombre di quanto si sia soliti pensare. Basta un'occhiatina al tragico Vietnam Veterans Memorial per rinfrescarsi la memoria... per tacere delle atrocità inaspritesi per sua autorizzazione, dal 1964, contro i civili vietnamiti

Dopo di che, a me, anche se di tutto ciò non fa cenno, il film di De Niro è piaciuto come film, non come lezione di storia, che la storia sono ben altri i luoghi e i modi per studiarla, beata ingenuità!
Tuttavia, non per questo non posso non notare le inesattezze o le omissioni storiche.
Il film mi incuriosiva per l'argomento trattato, certo, perché è argomento che mi interessa e affascina, ma se voglio leggere la storia della CIA, non vado certo al cinema. Credo che invece il film di De Niro, così come un film francese, onesto, passato da noi sotto tono - Agenti segreti - e in un altro modo ancora, La regola del sospetto di Roger Donaldson, evidenzi un altro aspetto che spesso dai libri non traspare: il vissuto, a torto o a ragione, di profonda convinzione e dovere patriottico esistente in quegli anni, e soprattutto il senso di grande solitudine esitenziale di un mondo dove non esisti più come essere umano, ma solo come ingranaggio, al punto che un vero agente della CIA come "Madre" - nome convenzionale degli agenti di grado direttivo, non direttamente operativi, ma logistici, con la responsabilità dei propri agenti "figli" da far tornare a casa al sicuro - più probabilmente avrebbe lasciato ammazzare il figlio naturale traditore. Un mondo senza pietà e ormai, regole, dal quale, una volta entrato, non esci più se non coi piedi in avanti, checché se ne dica...
(e vorrei proprio vedere se fra i documenti della Cia degli ultimi 25 anni, di recente desecretati, non ci è scappato anche qualche elenchino di nomi, per la gioia di vecchi agenti, "dormienti" e non...)

E ora, lasciatemi tornare ai miei Longobardi.

Disclaimer per chi ha avuto la forza di arrivare fin qui: questo post perché in un blog sul cinema, c'è stato un bizzaro signore che mi ha rimproverato di non aver capito la dinamica della Baia dei Porci, che a suo dire era spiegata così bene dal film di De Niro, perché mi ero permessa di affermare, facendo sfoggio inutile di presunte culture storiche, che il film medesimo non la raccontava proprio tutta, e giusta, su determinate faccende...
Come qualcun'altro ha detto: la gente è fantastica!
;-)

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14 maggio 2007
Un'antica lezione di editing
“Al carissimo fratello e signore Adelhardo (abate del monastero di Corbie, presso l’attuale Amiens, Francia- nota della PF), uomo di Dio, Paolo supplice.
Avevo desiderato, o mio diletto, d’incontrarti l’estate scorsa, quando fui dalle tue parti; ma bloccato perché i cavalli erano esausti, non potei giungere sino a te.
Tuttavia, con gli occhi dell’anima, i soli coi quali posso ancora vedere, spesso io scorgo la dolce tua immagine fraterna. Certo, avrei voluto già prima d’ora ottemperare a quello di cui mi hai richiesto: ma povero come sono e privo di copisti, non ho potuto farlo prima d’ora, soprattutto perché m’ha tormentato una malattia così lunga da costringermi a letto da settembre sino quasi al giorno di Natale e da non consentire al piccolo chierico, che ha trascritto anche queste righe come ha potuto, di mettere mano al calamaio.
Accetta tuttavia, anche se tardi, quelle lettere (di papa Gregorio Magno - nota della PF) che tu desideravi; e poiché non sono riuscito, a causa dei mie impegni, a leggerle tutte, sappi che trenta quattro d’esse sono state rilette ed emendate, eccetto i pochi passi nei quali non ho trovato chiarezza, e tuttavia non ho voluto integrare basandomi sul senso, perché non sembri che io cambi le parole d’un così grande dottore.
A questi passi fuori margine ho apposto il segno di Z, cioè di passo corrotto. Perciò la tua fraternità, se le sarà possibile, si dia premura di confrontarli con un codice più corretto e di reintegrare quelli in cui è caduta qualche parola.-

Chiedo tuttavia alla tua santità: che queste lettere non siano divulgate, per certe cose ch’è meglio restino nascoste a persone non adatte, piuttosto che divengano note.
Addio, fratello amatissimo, che sempre più sei rigoglioso nel bene; quando eleverai la mente alle cose superne, ricordati di me.

Prima rifluendo il Reno tornerà alle sue origini;
prima la chiara Mosella si volgerà alla sua sorgente,
prima che il mio amore per te, il volto amato,
il dolce nome di Adelhardo abbandonino il mio cuore.
E tu pure, così possa avere vigore e letizia per dono di Cristo,
tu pure sii memore di Paolo per tutta la tua vita”.

Montecassino, 13 aprile 799
“Eidus aprilis. Obiit venerandae memoriae domnus Paulus diaconus et monacus.”



Da La main de Paul Diacre sur un codex de VIII siècle, di O. Dobias-Rozdestvensky in
MSF (Memorie storiche forogiuliesi ) XXIV - V, 1928/29


(e volutamente taccio della dolcezza di questo commiato...)

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04 maggio 2007
Perché non mi fido (più) dei parolai di mestiere
Georges Duby, a differenza di altri celebri colleghi, pare non abbia alle spalle grandi storie di vocazioni per il proprio mestiere di storico (lui lo definiva proprio come "lo stare a bottega degli artigiani"). In una trasmissione registrata per Radio France Internationale, così racconta il suo primo approccio alla storia: casuale.
“All’inizio volevo studiare filosofia: ero tentato, come tutti, come molti ragazzi che uscivano dal liceo in quel periodo, nel 1937. Il professore di filosofia mi disse: Mi dia retta, non lo faccia. Per quel che so di lei, è meglio che si occupi di cose piuttosto che di parole.”
Ecco, nonostante io con le parole, professionalmente, ci abbia avuto a che fare parecchio, o magari forse per questo, non posso non capire, e apprezzare, il senso profondo di quel “occuparsi di cose, piuttosto che di parole”. A parte il fatto che di filosofi veri - pochi. Molti storici della filosofia, più facilmente, e a volte nemmeno quello: occorrono una certa dose di disciplina e di umiltà, per saperlo fare davvero.
Le parole senza sostanza volano, volano, si avvitano su se stesse, possono rendersi indecifrabili per il gusto di parere più profonde, spesso sono biforcute come la lingua del serpente, dicevano i nativi americani e forse non avevano tutti i torti perché, alla fin fine, non costa nulla dirle e dalla volatilità delle parole sono nate spesso guerre e molto dolore (il "gentleman agreement" è poco di moda, attualmente): le cose, con il loro peso, invece restano, fedeli a se stesse. Nel bene e nel male. Anche in questo regno della parola e della loro impalpabilità. E se c’è anche una pesantezza buona, del mondo, che lo rende solido sotto i nostri piedi, che ci fa fidare di un altro essere umano, che ci fa godere dell’essere vivi, anche quando passa attraverso le parole, nasce sempre e solo dalle cose, le uniche che restano davvero.
Ecco perché quest’aneddoto mi ha colpito, anche se di parole Duby ne ha prodotte a migliaia di migliaia, basti pensare alla sua arcinota tesi di dottorato, lezione di metodo ancora valida a distanza di decenni. E, credo, ecco perché dei parolai di mestiere, così diffusi, dubito - un po’ per istinto, un po’ per esperienza. Non conoscendo il peso delle cose, non essendo abituati a rispettare il peso delle cose, le offendono con molte parole inutili, o peggio ancora false, doppie come una moneta, inventate, e se ne compiacciono, o forse non se ne rendono neppure conto, perché le loro mani non si sono mai sporcate di quello “stare a bottega”, che è invece così onorevole. Finite, per legge, l’aristocrazia di spada e di toga, ora subiamo la strisciante e stucchevole aristocrazia di parola.
Ma l’aristocrazia, la storia lo insegna nelle cose, è destinata a soccombere e a rassegnarsi ad imparare l’umiltà della “bottega”, del laboratorio artigiano che produce quelle “cose” che rendono possibile la nostra vita, e la arricchiscono e forse la rendono lontana e incomprensibile ai parolai - per nostra fortuna!

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08 aprile 2007
Pasqua del 1916
Era la Pasqua del 1916: un gruppo di patrioti irlandesi , uomini e donne eroici degli Irish Volunteers e dell’Irish Citizen Army, si ribellarono alle autorità britanniche asserragliate nel castello di Dublino, vicino alla chiesa di St Patrick, mentre Patrick Pearse dichiarava l’indipendenza dell’isola dai detestati inglesi.
Anche se per anni il loro sacrificio ( e ci sono ancora , in St. Stephen’s Green, sulle colonne del Royal College of Surgeons, dove si asserragliarono i ribelli, i fori delle pallottole delle mitragliatrici inglesi) la gente ricordò per anni il loro sacrificio come insignificante, o al massimo folcloristico (non fu Pisacane coi suoi massacrato proprio da quei contadini meridionali che voleva liberare dal dominio feudale dei latifondisti?), pure se William Butler Yeats, che nonostante l’amore per il recupero della tradizione autenticamente irlandese, precedente all’annessione normanna, non era simpatizzante dei separatisti, disse che dopo la loro azione tutto era completamente cambiato, per l’Irlanda, e la loro azione era stata bellissima, probabilmente come quelle epiche compiute dal suo recuperato eroe mitologico Cúchulainn.
E mentre essi sacrificarono la loro vita per avviare il processo d’indipendenza dell’Eire, che si ottenne poi con il Trattato anglo-irlandese o trattato di Londra (uno dei tanti... si chiama così anche quello accettato dall’Italia, che riconosceva dopo la fine della Prima guerra mondiale la sovranità jugoslava su Fiume, per esempio, anche se pochi amano ricordarlo visti i molti morti che portò il non onorarlo...) firmato da Michael Collins nel 1921, ma senza l’annessione dell’Ulster - trattato che venne ricusato nel 1922 da de Valera e di fatto portò alla guerra civile fra chi non si rassegnava a perdere l’unità dell’indipendenza dell’isola e chi accettava il trattato, piuttosto che ritrovasi con gli inglesi sulla porta di casa...
La guerra anglo-irlandese si concluse un anno dopo, nel 1923, con l’accordo firmato da Éamonn de Bhailéara o se preferite Eamon de Valera allo storico Shelbourne Hotel, dove nacque la Costituzione irlandese, e dove ho avuto il piacere di alloggiare quando ero a Dublino, che si trova proprio all’altro lato di quello stesso St. Stephen’s Green che fu teatro della Rivoluzione di Pasqua, ora giardino delizioso ove passeggiare fra le statue di Yeats e Joyce,
Ovviamente, la rivolta del 1916 venne soffocata nel sangue, e Michael Collins stesso, eroe dell’indipendenza, oggi considerato uno dei padri dell’Irlanda libera, uno degli inventori della moderna tecnica della guerriglia urbana, membro di spicco del Sinn Féin, che teorizzando "la liberta di avere la libertà", non voleva arrendersi alla necessità di accettare il compromesso che lascerà l’Ulster in mano al Regno Unito e la patria spezzata in due, sfuggì per miracolo alla fucilazione. Purtroppo, solo per morire assassinato per “condanna politica” da parte dell’inglese Lord Birkenhead ("La guerra fatta dagli irlandesi contro gli irlandesi è un genere di sviluppo politico cui assisto con grande piacere.")il 22 agosto 1922, anche se il suo insegnamento e la sua morte restano nel cuore degli irlandesi ancor oggi.

(per chi ne voglia sapere di più, solo qualche suggerimento:
http://www.threemonkeysonline.com/it/article2.php?id=157
http://www.threemonkeysonline.com/it/printable.php?id=157
http://www.sisde.it/Gnosis/Rivista5.nsf/ServNavig/23
it.wikipedia.org/wiki/Guerra_civile_irlandese
...
e ovviamente l'unica, che io sappia, storia d'Irlanda pubblicata in italiano: quella di Robert Kee, pubblicata da Bompiani)

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30 gennaio 2007
Gli ossimori della storia
“Ed ora, per quanto schivi e compresi del loro dovere, i giudici erano lì, seduti alla loro cattedra, di fronte al pubblico come in un teatro. Il pubblico doveva rappresentare il mondo intero, ed effettivamente nelle prime settimane fu costituito in prevalenza da corrispondenti di quotidiani e riviste, accorsi a frotte a Gerusalemme, dai quattro angoli della terra. Dovevano assistere ad uno spettacolo non meno sensazionale del processo di Norimberga (1945/46), solo che questa volta il tema centrale sarebbe stato “la tragedia del popolo ebraico nel suo complesso”. Se infatti ad Eichmann (processo nel 1960)”contesteremo anche crimini contro non ebrei,” ciò avverrà non tanto perché li ha commessi, quanto “perché non facciamo distinzioni etniche”.
Frase davvero singolare, in bocca a un Pubblico Ministero
, e questa frase, pronunciata nel discorso di apertura, si rivelò essenziale per capire tutta l’impostazione data dall’accusa al processo: ché il processo doveva basarsi su quello che gli ebrei avevano sofferto, non su quello che Eichmann aveva fatto
, Distinguere fra le due cose, secondo Hausner (Primo ministro di Ben Gurion,nota della parda Flora) , non aveva senso, perché “ci vuole un solo uomo che si occupò quasi esclusivamente degli ebrei, che aveva il compito di distruggerli, che nell’edificio dell’iniquo regime non aveva altra funzione: e questo uomo fu Adolf Eichmann.” Non era dunque logico esporre dinnanzi alla Corte tutti i fatti, tutte le tragiche vicende degli ebrei, (anche se naturalmente nessuno le aveva mai messe in dubbio) e poi isolare gli elementi che in un modo o nell’altro dimostravano l’esistenza di una connessione tra l’operato di Eichmann e ciò che era accaduto? Sempre secondo Hausner il processo di Norimberga (1945/46), dove gli imputati erano stati “giudicati per crimini contro cittadini di varie nazionalità”, aveva trascurato la tragedia del popolo ebraico per la semplice ragione che Eichmann non sedeva al banco degli imputati.
Hausner riteneva veramente che a Norimberga ci si sarebbe occupati degli ebrei se Eichmann fosse stato presente?
E’ difficile crederlo.
Come quasi tutti in Israele, così Hausner, pensava che soltanto un tribunale ebraico potesse render giustizia agli ebrei, e che toccasse agli ebrei giudicare i loro nemici.
Di qui, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini contro il popolo ebraico” ma “per crimini contro l’umanità (ricordo, fra le vittime dei campi di sterminio: gay, malati di mente, handicappati, slavi, zingari
... nota di pardaFlora) il fatto che in Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini contro il popolo ebraico”, ma per “crimini contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico”.
Di qui la strana vanteria: “Noi non facciamo distinzioni etniche,”
vanteria che ci apparirà meno singolare se si pensa che in Israele la legge rabbinica regola la vita privata dei cittadini, con risultato che un ebreo non può sposare un non ebreo; i matrimoni contratti all’estero sono riconosciuti, ma i figli nati da matrimoni misti sono, per legge, bastardi (mentre i figli nati da genitori ebrei fuori dal vincolo matrimoniale vengono invece legittimati). E se uno ha per caso un madre non ebrea, non può sposarsi e non ha diritto al funerale Questa assurda situazione si è acutizzata da quando, nel 1953, buona parte della giurisdizione, in materia di giurisdizione familiare, è stata trasferita ai tribunali laici. Oggi le donne possono ereditare,e in genere godono degli stessi diritti degli uomini. Perciò non si può pensare che sia il rispetto per la fede o la potenza della onoranza fanatica a impedire al governo d’Israele di sostituire la giurisdizione laica alla legge rabbinica anche in materia di matrimonio e divorzio. Il fatto è che i cittadini israeliani, religiosi e non religiosi, sembrano tutti d’accordo nel ritenere buona cosa la proibizione dei matrimoni misti, ed è soprattutto per questo (come alcuni funzionari israeliani non hanno esitato ad ammettere fuori dall’aula del tribunale) che sono anche d’accordo nel non desiderare una costituzione scritta che sancisca (la cosa sarebbe piuttosto imbarazzante) questa norma. (L’argomento addotto contro il matrimonio civile è che spesso scinderebbe la casa d’Israele, e inoltre staccherebbe gli ebrei d’Israele dagli ebrei della diaspora” come ha detto di recente Philip Gillon in Jewish Fronrtier). Comunque sia, fu certamente un po’ sconcertante l’ingenuità con cui il pubblico ministero denunziò infami le leggi di Norimberga del 1935, che avevano proibito i rapporti sessuali fra ebrei e tedeschi.
I corrispondenti meglio informati notarono la contraddizione, tuttavia non ne parlarono nei loro articoli, pensando che non fosse quello il momento per dire agli ebrei che cosa c’era di difettoso nelle leggi e nelle istituzioni del loro paese che avevano proibito i matrimoni misti.”

Hanna Arendt
La banalità del male


Libro molto citato, ma non so quanto letto...mi permetto ai vari fanaticucci, che ovviamente, da come parlano, lo conosceranno certamente già a memoria, anche se oggettivamente è davvero un libro scomodo per la limpida onestà del testo che non guarda in faccia nessuna ragione politica o demagogica, ma solo la realtà, una rilettura attenta e illuminata... si sa mai si imparasse qualcosa di nuovo sulla natura del male e, soprattutto, della natura umana...


Ps. Lo so, ovviamente, che il Giorno della Memoria è il 27 gennaio, ma io che sono fatta a modo mio, penso che si dovrebbe ricordare 365 giorni all'anno, e magari anche in modo corretto. E di conseguenza mi comporto...

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28 gennaio 2007
Dieci
Vorrei ripartire ripendendo dal conflitto arabo - israeliano, e dalla vicenda del traghetto Exodus, alla quale ho già dedicato pagine. Perdonate se ripeto cose già dette, ma mi pareva più corretto riprendere con calma le fila del discorso...

Dopo l’episodio dell’Exodus, nonostante tutti i sotto distretti della Palestina avessero una popolazione in maggioranza ebrea, la dirigenze araba invece di far forza su questi argomenti puntò a rifiutare il principio di partizione in sé, apparendo, a fonte delle recenti sofferenze patite dal popolo ebraico, portare motivazioni meschine che non potevano che alienare simpatie alla causa araba. Ma la dirigenza araba contava, nella sua strategia, sull’appoggio inglese, che in effetti aveva evidenziato con chiarezza e ufficialmente la sproporzione di territorio a scapito degli arabi.
Lamentele si ebbero anche da parte ebrea, comprensibilmente in relazione alla clausola relativa a Gerusalemme: sia per motivi religiosi, sia perché i sobborghi occidentali della città erano estremamente popolosi. Tuttavia, per i leader sionisti, che avevano lavorato duramente in tal senso, la spartizione era assolutamente prioritaria: eventuali riserve sulla sua estensione dovevano necessariamente essere per il momento accantonate.
Il piano proposto dall’UNSCOP venne esaminato dall’Assemblea delle Nazioni Unite, ricevendo subito il sostegno dei tre voti dell’URSS. Questo appoggio non poteva restare ininfluente sulle altre nazioni, anche se per la diplomazia orientale si trattava solo di una mossa finalizzata ad allontanare dall’area l’influenza inglese, anche se - e i sovietici lo sottolinearono - chi aveva raggiunto per primo i campi di concentramento e visto con i propri occhi la realtà della Shoa erano stati proprio i soldati dell’Armata Rossa. Tuttavia, la posizione decisiva sarebbe stata quella scelta dagli Stati Uniti, i quali però si limitarono, tramite il segretario di stato Marshall, a comunicare di “dare gran peso” alla proposta dell’UNSCOP. In realtà, tale dichiarazione poco impegnativa nascondeva le fortissime pressioni operate su Truman da parte dei leader sionisti, tanto che pare il presidente, piccato, a sia giunto a ricordare agli ebrei che le parti in causa erano due, e che molti negli Stati Uniti iniziavano a rifletterei seriamente su questo fatto.
D’altra parte, per gli USA mantenere buoni rapporti coi Paesi arabi produttori di petrolio era una necessità concreta, sottolineata particolarmente dal ministro della Difesa Forrestal, quindi sostenitore delle richieste arabe.
Tuttavia la capacità di pressione da parte dell’elettorato ebraico era tale da non lasciare una reale libertà di decisione a Truman, nel verosimile rischio di alienarsi le simpatie non solo di una fetta importante dell’elettorato ma anche l’appoggio di importanti uomini politici, quali il presidente del partito democratico nazionale, Hannegan, o il presidente del partito democratico di New York, Fitzpatrick. L’esito di questa lotta politica, in gran parte sotterranea, si ebbe il 10 ottobre 1947 con l’annuncio dell’appoggio degli USA al piano di spartizione dell’UNSCOP, a patto che venisse mantenuta la disponibilità alla collaborazione da parte degli inglesi, che avrebbero sovrinteso militarmente alla creazione dei due stati prima di concludere il proprio mandato, e a condizione anche che venisse ridotta la popolazione araba nei sotto distretti ebraici.
Ne risultò il trasferimento di Giaffa allo stato arabo.
Il piano elaborato dall’UNSCOP non era soddisfacente, soprattutto per la parte araba, e non godeva dell’approvazione di numerosi paesi facenti parte delle Nazioni Unite, tuttavia, il 25 novembre, sottoposto a voto, venne approvato con 25 voti a favore, tre contrari, 17 astenuti e due assenti.
La fragilità di questa votazione parla da sé, e per i sionisti era vitale rafforzare il più possibile la propria posizione, cosa che riuscì solo in parte, quando Weizmann facendo appello alla sua vecchia amicizia con Léon Blum, ottenne il cambio del voto francese.
Ripresero le pressioni sugli USA, e il 27 novembre i leader sionisti telegrafarono a Truman, chiedendogli di assicurare alla loro causa i voti di Honduras, Cina, Grecia, Haiti, Ecuador , Liberia , Paraguay e Filippine; nonostante la secca smentita dell’amministrazione Truman, è certo che pressioni, anche intimidatorie, vennero esercitate dagli Stati Uniti presso le capitali degli stati citati.
In questo modo, che definire discutibile è il minimo, il 29 novembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite raggiunse finalmente i due terzi necessari, e il piano di spartizione UNSCOP venne approvato.
Ma tale risultato, voluto con tutte le forze e ottenuto con tutti i mezzi disponibili, leciti o meno, dalla leadership sionista, segnò solo l’inizio della reazione araba all’innegabile torto subito. E i festeggiamenti ebraici che salutarono la votazione positiva provocò sin da subito tumulti nel mondo arabo, così come aveva previsto il portavoce della comunità araba, Jamal Husseini, che aveva avvisato le Nazioni Unite che le linee di spartizione non sarebbero state altro che linee di fuoco e sangue. Come per altro ancora possiamo constatare.
Era l’annuncio, neanche tanto velato, dell’inizio di una guerra civile che non vede ancora via d’uscita.
L’Alto Comitato Arabo programmò per il 2 - 4 dicembre 1947 uno sciopero generale in Palestina, con l’assicurazione all’Inghilterra, che non vi sarebbero stati episodi violenti. Ma la tensione era troppo alta per mantenere quella promessa, ammesso fosse in buona fede, e durante il primo giorno di sciopero si ebbe l’incendio di un’area commerciale a Gerusalemme.
Inoltre, gli inglesi erano lungi dal voler mantenere l’impegno preso di attuare la spartizione prima della fine del proprio mandato previsto per il maggio del 1948: i militari inglesi in Palestina non avevano nessuna intenzione di sacrificare anche un altro solo uomo in una questione nella quale non ritenevano di aver più alcun interesse. Ovviamente, tale scelta non fece altro che innalzare il livello di tensione e ferocia dello stato di guerra civile, così che anche la Commissione per la Palestina, voluta dalle Nazioni Unite per costituire i due stati e la loro unione economica, fallì ancor prima di diventare realtà. Gli inglesi impedirono ai membri della Commissione di entrare in Palestina, e l’intervento dell’URSS impedì la concessione, da parte del Consiglio di sicurezza, di una scorta armata che si opponesse all’ostruzionismo anglosassone.
Era la fine - quale che sia la valutazione sulla sua effettiva bontà politica - ingloriosa e colpevole, del piano di spartizione e del tentativo di risolvere diplomaticamente il problema del ritorno, dopo quasi duemila anni, degli ebrei in Palestina, tentando al contempo di rispettare anche i diritti dei numerosi abitanti arabi

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postato da la Parda Flora alle 18:57  

 

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