04 maggio 2007
Perché non mi fido (più) dei parolai di mestiere
Georges Duby, a differenza di altri celebri colleghi, pare non abbia alle spalle grandi storie di vocazioni per il proprio mestiere di storico (lui lo definiva proprio come "lo stare a bottega degli artigiani"). In una trasmissione registrata per Radio France Internationale, così racconta il suo primo approccio alla storia: casuale.
“All’inizio volevo studiare filosofia: ero tentato, come tutti, come molti ragazzi che uscivano dal liceo in quel periodo, nel 1937. Il professore di filosofia mi disse: Mi dia retta, non lo faccia. Per quel che so di lei, è meglio che si occupi di cose piuttosto che di parole.”
Ecco, nonostante io con le parole, professionalmente, ci abbia avuto a che fare parecchio, o magari forse per questo, non posso non capire, e apprezzare, il senso profondo di quel “occuparsi di cose, piuttosto che di parole”. A parte il fatto che di filosofi veri - pochi. Molti storici della filosofia, più facilmente, e a volte nemmeno quello: occorrono una certa dose di disciplina e di umiltà, per saperlo fare davvero.
Le parole senza sostanza volano, volano, si avvitano su se stesse, possono rendersi indecifrabili per il gusto di parere più profonde, spesso sono biforcute come la lingua del serpente, dicevano i nativi americani e forse non avevano tutti i torti perché, alla fin fine, non costa nulla dirle e dalla volatilità delle parole sono nate spesso guerre e molto dolore (il "gentleman agreement" è poco di moda, attualmente): le cose, con il loro peso, invece restano, fedeli a se stesse. Nel bene e nel male. Anche in questo regno della parola e della loro impalpabilità. E se c’è anche una pesantezza buona, del mondo, che lo rende solido sotto i nostri piedi, che ci fa fidare di un altro essere umano, che ci fa godere dell’essere vivi, anche quando passa attraverso le parole, nasce sempre e solo dalle cose, le uniche che restano davvero.
Ecco perché quest’aneddoto mi ha colpito, anche se di parole Duby ne ha prodotte a migliaia di migliaia, basti pensare alla sua arcinota tesi di dottorato, lezione di metodo ancora valida a distanza di decenni. E, credo, ecco perché dei parolai di mestiere, così diffusi, dubito - un po’ per istinto, un po’ per esperienza. Non conoscendo il peso delle cose, non essendo abituati a rispettare il peso delle cose, le offendono con molte parole inutili, o peggio ancora false, doppie come una moneta, inventate, e se ne compiacciono, o forse non se ne rendono neppure conto, perché le loro mani non si sono mai sporcate di quello “stare a bottega”, che è invece così onorevole. Finite, per legge, l’aristocrazia di spada e di toga, ora subiamo la strisciante e stucchevole aristocrazia di parola.
Ma l’aristocrazia, la storia lo insegna nelle cose, è destinata a soccombere e a rassegnarsi ad imparare l’umiltà della “bottega”, del laboratorio artigiano che produce quelle “cose” che rendono possibile la nostra vita, e la arricchiscono e forse la rendono lontana e incomprensibile ai parolai - per nostra fortuna!

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postato da la Parda Flora alle 09:33  

 

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