02 maggio 2007
Caro D.
Caro D.

Affronti, nel tuo post, due differenti argomenti: il linguaggio, e la capacità di astrarsi dalla contemporaneità, per poterla porre a quella minima distanza che consenta di darne un giudizio, che non sia quello conformistico - operazione quest'ultima che intriga da tempo, come problema euristico e metodologico, gli storici contemporaneisti, e che credo si sia appurato ormai essere insolubile, nella sostanza, addirittura per tutto ciò che riguarda la storia, che infatti è elastica e duttile e destinata ad essere, nella sua conoscenza, perennemente superata da se stessa per obsolescenza, per così dire, e finisce col diventare storia anch'essa. Infatti c'è anche una storia e antropologia del pensiero storico.
Ma non riuscire ad uscire dalle categorie culturali della propria epoca e del proprio ambiente di formazione, credo non sia imputabile a null'altro che non sia il normale funzionamento del sistema nervoso, in particolar modo per ciò che riguarda l'apprendimento. Perciò credo che essere consapevoli dell'esistenza dell'impossibilità di ottenere una visione oggettiva, non pregiudiziale, della realtà, ma sforzarsi di ottenerla, sia quanto, onestamente e realisticamente, si può chiedere, dall'uomo qualunque (famigerato: qualcuno lo ricorderà anche come, per breve tempo, partito di nostalgie fascistoidi all'indomani della fine della II guerra mondiale) sino all'intellettuale più impegnato.
Nessuno, immagino, prenderebbe sul serio oggi un progetto pedagogico come l’Emilio di Rousseau, se non come provocazione alla riflessione sul fatto che, evidentemente, ogni epoca ha avuto i propri conformismi!
Forse quel non-conformismo al quale fai riferimento potrebbe essere più familiare a una perdita del Sé, che appartiene però alla cultura orientale, non alla nostra, e ormai, in epoca di new age imperante, è divenuta conformistica anch'essa.
D’altra parte, la società civile, il patto sociale o come lo vuoi chiamare, sono imprescindibili dallo stato umano, prima ancora che per considerazioni politiche o filosofiche, per considerazioni psicologiche: chi è solo, per quanto portatore “sano” di una visione oggettiva e disincantata della realtà, è comunque destinato alla follia e alla morte. Lo sa bene il sistema carcerario, che prevede come massima punizione l’isolamento, e lo sa bene anche la chiesa, non favorevole, se non con molte titubanze, all’eremitismo come forma di espressione della propria religiosità, e per fortuna, aggiungerei: in caso contrario saremmo afflitti, immagino, da un numero infinito di profeti e visionari! Lo testimonia molto bene l’equilibrio della regola francescana, che prevede una severa selezione degli aspiranti eremiti, che saranno poi non soli ma a due a due, con ruoli alternanti e reciproci, nella loro alternanza, di “madre” e “figlio”, di guida e discepolo, proprio per evitare gli eccessi e gli sbandamenti psichici ai quali può portare la solitudine protratta.
E’ quindi accentando di restare nella società, e non “rifugiandosi sull’”Aventino” come spesso verrebbe voglia di fare, che si svolge il proprio ruolo di esseri umani, che può anche solo per questo, divenire politico, nel senso più squisitamente etimologico ( e io credo anche reale) del termine, pur se è innegabile che l’esperienza della solitudine psicologica e del conseguente disagio si consumano sempre più spesso nel chiasso e nell’apparente edonismo sfrenato della nostra società..
Altro discorso vale per il linguaggio nella comunicazione (tautologico: ha forse il linguaggio altro scopo?).
Da una parte sono reduce da un dialogo piuttosto serrato attorno al sito di un professionista del settore, piuttosto disperato circa la nostra possibilità di non avere mai più una lingua corretta grammaticalmente, soffocata da professionisti della comunicazione sempre più ignoranti e beceri e da una scuola che sovente fallisce il proprio scopo educativo, producendo una generazione di chiacchieroni ignoranti, che vanno ad ingrossare nella vita quotidiana, la già fastidiosa categoria dei tuttologi che ci ammorbano da una qualsiasi trasmissione televisiva che si voglia dare un certo tono; dall'altra, ho appena finito la lettura di un saggio che, fra le altre cose, evidenzia proprio l'importanza del linguaggio, e del salvataggio di molte lingue - che come il ghepardo delle nevi, la foca monaca e il panda, ma con molto meno clamore - si stanno estinguendo, assieme alla cultura che le aveva generate. Ciò appare più evidente nella produzione letteraria di quei paesi che hanno vissuto un passato coloniale, e che pian piano stanno recuperando la loro lingua madre, vissuta, assieme alla propria cultura, a lungo quasi con vergogna.
Anche questo è un discorso politico: dall’Illuminismo la classe intellettuale italiana è dolorosamente consapevole della pochezza di mezzi a sua disposizione per raggiungere un popolo quasi totalmente analfabeta: basti vedere le percentuali di italiani votanti, quando circa un secolo fa il suffragio venne esteso a coloro, maschi, che fossero in grado di scrivere almeno il proprio nome: se non ricordo male circa il 9% degli italiani!
(Né oggi va molto meglio, tutto sommato. Secondo dati raccolti nel 2005 dall’Ulna - Unione nazionale lotta all’analfabetismo: “Sei milioni di italiani non sanno né leggere né scrivere. Venti milioni possiedono solo la licenza elementare. Oltre trentacinque milioni sono “ana-alfabeti”, categoria che comprende gli “originari” e gli appena alfabetizzati.”)
Il lavoro di alfabetizzazione scolastica, benché si legiferasse al riguardo praticamente già all’indomani dell’Unità, doveva quindi necessariamente venire prima di quello politico, anche se poi al riguardo vi sono colpevoli manchevolezze: mi riferisco per esempio alla scarsa rilevanza che, nella sua storia, il PSI ha dedicato alla questione del Mezzogiorno e alla sua realtà contadina feudale, concentrandosi invece sulla educazione alla presa di coscienza del proprio status e dei propri diritti pressoché solo relativamente al proletariato cittadino, che come tutti sappiamo si concentrava nel Nord ovest - fatto questo che, fra l’altro, lascerà ampi spazi vuoti che altre ideologie occuperanno, come sempre avviene in politica, ed avrà un suo prezzo con l’avvento del fascismo.
Ora, come diceva Warhol, quindici minuti di popolarità non si negano a nessuno, e i mostruosi risultati di questa politica comunicativa sono tristemente sotto gli occhi di tutti: la “gggente” aspira sempre più al suo quarto d’ora di celebrità, quale che esso sia, a scapito di civiltà e qualità, e la spazzatura si avvia ad essere risorsa “nutritiva” non solo per gli abitanti delle bidonville del Terzo mondo, perlomeno da un punto di vista culturale.
In questo contesto, condividere i tuoi timori, scaturiti anche dalla visionarietà che contraddistingue gran parte dell’opera di Buzzati ( e per fortuna, non solo sua, ché visioni incredibilmente limpide del futuro prossimo venturo non appartengono solo a lui: basta avere la pazienza di cercarle in mezzo al ciarpame comunicativo) è quasi d’obbligo. Sarebbe però bello trovare anche qualche risposta pragmatica a tanta desolazione...

(inevitabile, Barbarians di Hans Zimmer!)

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postato da la Parda Flora alle 12:10  

 

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