01 giugno 2006 |
Settembre (per te che sai capire davvero) |
Quando non c'è primavera nè estate, cosa rimane?
Ahi settembre mi dirai quanti amori porterai le vendemmie che faro', ahi settembre tornero'. Sono pronto e tocca a me, l'aria fresca soffiera' l'armatura non l'avro', ahi settembre partiro'. Mentre il giorno sparisce primavera verra' sara' dolce e nervosa ma non mi scappera' saliro' sul battello e non la fuggiro' saro' avvolto per sempre e la bacero' e i suoi lunghi capelli non li rivedro' piu' ahi settembre lontano, dalle un bacio per me. La tempesta di neve non mi sorprendera' ahi settembre che sara'. Lascio tutto a te, dille del mio amore dille che se puo' io potro' aspettare l'accompagnero', dentro il mio giardino sempre la terro', da vicino, sempre, sempre. Ed un giorno mi disse entra ti aspettero' ma il nemico da sempre si cattura cosi' apri bene la porta, fallo entrare da te lei l'ha fatto settembre, lei l'ha fatto con me e se nella tua testa un rasoio terra' tagliera' i miei pensieri come e quando vorra' usera' i suoi capelli, io la pettinero' e prima che sia settembre il mio sangue daro'. lascio tutto a te....
21. "Offri al nemico un'esca per attirarlo; fingi disordine fra le truppe, e colpiscilo" L'arte della guerra Sun TzuEtichette: diario, etologia domestica, parole e pensieri scritti sfacciatamente per me (checché ne dica l'Autore) |
postato da la Parda Flora
alle 12:14
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Di pagliuzze e di travi altrui. |
Di pagliuzze e di travi altrui.
Mi avvicinai alla Kaballah da ragazzina. L’insegnante che ebbi allora, e che mi indicò i testi di Scholem, conservati nella biblioteca della sinagoga della città nella quale vivevo, traslitterava dall’ebraico la parola, a differenza di Scholem, così, con due elle, perché me ne risultasse più evidente la accentazione nella lettura. Da allora, m’è rimasto il vizio: dico kabballà e scrivo kabballah. Tenuto conto delle molte versioni che sono normalmente accettate nella traslitterazione in caratteri latini di tutte le lingue che usino alfabeti diversi o ideogrammi, non mi pare questa grande colpa: oltretutto è attaccata al ricordo di un uomo coltissimo e che m’intimidiva molto, ma dal quale c'era una marea di cose da imparare e che non capiva perché una giovane cattolica si interessasse della sua religione. D’altronde, forse all’epoca non lo capivo neanche io. Forse l’ho già detto, nel caso me ne scuso: io credo fermamente che ad ogni essere umano, per evolversi e crescere, venga affidato un koan, come ad un allievo Zen. Solo che qui lo zen non c’entra, o perlomeno non necessariamente. Non è una questione di new age come troppo spesso viene vissuta. E’ che ogni persona ha un suo mistero da svelare, un talento da esplicare anziché seppellirlo sotto terra per paura. E la terra può essere quel fango della sporcizia dell’anima che sempre più ci abituiamo a vedere attorno e, Dio non voglia, dentro di noi. La maggior parte degli esseri umani, ho constatato, questo koan neppure lo percepisce e solo una minima parte ne coglie l’urgenza. Non conosco nessuno che lo abbia risolto - forse nell’attimo della morte. Perché noi possiamo usare il linguaggio degli altri dei, ma per davvero siamo intrisi solo del nostro, e attraverso il nostro, lo si voglia o no, vediamo il mondo. Quindi torniamo a noi e alla lotta che Giacobbe sostenne con l’Angelo - ecco, ora vale la grafia latina, per i più astuti o i più velenosi fra coloro che strisciano sul proprio ventre. Il suo significato è così ovvio, che non varrebbe quasi la pena parlarne: non c’è incontro senza scontro. Ma quanti lo sanno davvero? E dove porre l’accento, sullo scontro o sull’incontro? Cosa definisce la sottile ragnatela dei rapporti umani? Dunque, la lunga notte di Giacobbe e l’Angelo, al passo dello Jabbok, è la metafora della relazione umana, almeno questa è la visione che ne dà la teologia cattolica. Ma se tutto è così semplice, allora da dove nasce il divieto di mangiare il ghid mhannashé della coscia (nervo sciatico) al quale è dedicato un intero capitolo del Talmud e tanto lavoro e incertezza (ne esistono e si discusse nel tempo di varii metodi)crea ai macellai kosher, mentre Ya’akov si guadagnò il nome di Israel, ovvero Egli ha lottato con Dio?
Quasi tutti, non solo il povero Gustavo Vinay, al quale il CISAM di Spoleto ha dedicato tante iniziative commemorative, allievo di quel Falco che tanto venne penalizzato dalle leggi razziali, e del quale ci rimane una Storia della repubblica Romana che possiedo in una delle prima edizioni, scrivono Valdo. Vinay, come si sa, era valdese per parte di madre, uno dei pochi sopravvissuti nelle vallate piemontesi di Torre Pellice, e pensando ai suoi rapporti di quel periodo con il suo maestro su questa consuetudine atavica alla fuga e al nascondiglio della sua gente s’interrogherà a lungo, ripensando al complicato rapporto di amore e viltà che durante la guerra lo legò al suo maestro-padre Giovanni Falco, estromesso dall’insegnamento. Tanto che negli Anni ’60, gli stessi anni che videro trionfare - finalmente - Giuseppe Berto con il suo Male Oscuro, ideale lettera al padre, e affacciarsi al mondo culturale italiano anche la narrativa o la saggista dell’inconscio umano, scrisse un delizioso libretto verosimilmente liberatorio, ma ormai introvabile: I pretesti della memoria per un maestro. Anche se ho studiato e studio con passione la storia delle eresie, il mio maestro è ovviamente stato un altro, allievo di Giovanni Tabacco (e scusate se è poco), che di Vinay e di quegli anni - che videro all’Università di Torino anche i Garrone, Pavese .... - parla con passione e a volte una punta di disincanto (ad esempio, secondo lui Pavese era insopportabile), ma ritiene la grafia Valdo, una storpiatura. Essendo al momento uno dei più grande storici di chiesa ed eresie medievali, in Italia e all’estero, in maniera particolare sul francescanesimo e sul valdesimo o valdismo che dir si voglia, io da lui ho imparato a chiamare Pietro Valdesio, perché questa è per lui la corretta grafia del nome, compreso sotto esame. So che è inconsueta, ma in libri prestigiosi ho letto talmente tante imperfezioni, quando si parla fuori dal proprio campo, che mi attengo convinta all’insegnamento del mio maestro Grado Giovanni Merlo, ritenendolo sufficientemente qualificato per decidere di un nome piuttosto che di un altro, e me ne infischio del resto - la storia è una delle materie più in evoluzione: usare un autore di cinquant’anni fa può essere deleterio, o talvolta addirittura ridicolo, soprattutto, se non si sa di cosa si parla e quando si fa da imparaticci per puro spirito di polemica. L’ho detto e ridetto, e lo dico ancora: parlo di ciò che so, del resto taccio, come sarebbe bene facessero un po’ tutti. Poi un refuso mi può scappare; ne trovo in continuazione anche nei “libri sacri.”... da quando poi sono in cura sono aumentati in maniera avvilente, come altri piccoli disturbi neurologici, però doversi attaccare a quelli per poter offendere vuol dire essere proprio vuoti come una zucca!
(Disclaimer: così come i commenti, lettere private di sconosciuti o di mittenti indesiderati verranno cestinate come spam senza essere aperte) postato da la Parda |
postato da la Parda Flora
alle 12:07
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31 maggio 2006 |
aspettando... |
Ho un amico che ha il nome del cugino di Dante: è un nome di famiglia. A volte mi racconta della carrozza dei suoi antenati, che usavano per andare a corte da Franceschiello, anche se la nobiltà del ceppo è ben più antica. Il nostro passatempo preferito è passeggiare per i parchi di Milano e per quanto resta della sua parte romana. A un occhio attento sono ancora individuabili, con cuore nell’area della Zecca e di piazza degli Affari e cartina sottomano, il decumano e il cardo massimo romani. C’è una casa privata che ha un mosaico romano su una parete -ovviamente protetto dalle Belle Arti. Chissà perché non si pensa mai a Milano come città d’arte. Lui è ricercatore di storia Bizantina, ma se si riesce ad arginare l’argomento è un gradevolissimo, curioso e colto conversatore. In effetti, quando il prossimo anno andrà per dei periodi di perfezionamento ad Oxford, mi spiacerà molto. Anche perché non sdegna uno dei riti milanesi - la colazione da Cova, una specie del caffè del Greco a Roma, ma molto migliore organoletticamente - con annesso struscio in Montenapoleone. Oppure terminiamo le nostre passeggiate con un the verde giapponese ( non sono così maniacale da ricordare i nomi, ma lui si) preparato a casa sua con tutta l’attenzione che richiede: teiera di metallo di un bellissimo blu cobalto, pre riscaldata, coccini appositi per the che si deve bere tiepido e non caldo, eccetera eccetera. La sua vecchia casa era vicina all’attuale studio dell’avvocato Bernardini De Pace, che merita, per esperienza personale, tutta la fama che si è fatta. Non c’è avvocato bravo che non abbia una doppia fila di denti come gli squali, nascosti dietro una apparenza piacevolmente ingannevole. Degli altri non val la pena interessarsi. La nomino qui, perché il suo studio, molto bello, ricavato in un palazzo neoclassico nel quale abita anche un conosciuto calciatore, confina col famoso laghetto abitato da fenicotteri rosa della famiglia Invernizzi. Il mio amico è protettivo nei miei confronti, e questo m’intenerisce. Ha sofferto molto, per questo ha rispetto del dolore degli altri e vorrebbe proteggerli, almeno quelli che ama; se penso a chi il dolore si diverte a procurarlo... Mi da consigli materni assolutamente esilaranti e mi abbraccia, come una madre che non ha mai avuto. Lascio perdere gli anni che passano e penso a quanto gli è costato sopravvivere, barcamendosi fra suo padre e soprattutto sua madre, anche se non lo racconterò qui. Un bacio anche a te, G.
Beati voi, o sani che come angeli potete bearvi di ciò che avete gratuitamente ricevuto in dono come fosse per voi un premio. |
postato da la Parda Flora
alle 11:49
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30 maggio 2006 |
Camel Trophy: e la sfiga continua... |
Noooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!!!! La MORATTI nooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!!!!
Vogliamo i brogli anche nooooi! Venti ore per scrutinare, quando mai?!
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, Dai boschi, dall'arse fucine stridenti, Dai solchi bagnati di servo sudor, Un volgo disperso repente si desta; Intende l'orecchio, solleva la testa Percosso da novo crescente romor. Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti, Qual raggio di sole da nuvoli folti, Traluce de' padri la fiera virtù: Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto Si mesce e discorda lo spregio sofferto Col misero orgoglio d'un tempo che fu. S'aduna voglioso, si sperde tremante, Per torti sentieri, con passo vagante, Fra tema e desire, s'avanza e ristà; E adocchia e rimira scorata e confusa De' crudi signori la turba diffusa, Che fugge dai brandi, che sosta non ha Ansanti li vede, quai trepide fere, Irsuti per tema le fulve criniere, Le note latebre del covo cercar; E quivi, deposta l'usata minaccia, Le donne superbe, con pallida faccia, I figli pensosi pensose guatar. E sopra i fuggenti, con avido brando, Quai cani disciolti, correndo, frugando, Da ritta, da manca, guerrieri venir: Li vede, e rapito d'ignoto contento, Con l'agile speme precorre l'evento, E sogna la fine del duro servir. Udite! Quei forti che tengono il campo, Che ai vostri tiranni precludon lo scampo, Son giunti da lunge, per aspri sentier: Sospeser le gioie dei prandi festosi, Assursero in fretta dai blandi riposi, Chiamati repente da squillo guerrier. Lasciar nelle sale del tetto natio Le donne accorate, tornanti all'addio, A preghi e consigli che il pianto troncò: Han carca la fronte de' pesti cimieri, Han poste le selle sui bruni corsieri, Volaron sul ponte che cupo sonò. A torme, di terra passarono in terra, Cantando giulive canzoni di guerra, Ma i dolci castelli pensando nel cor: Per valli petrose, per balzi dirotti, Vegliaron nell'arme le gelide notti, Membrando i fidati colloqui d'amor. Gli oscuri perigli di stanze incresciose, Per greppi senz'orma le corse affannose, Il rigido impero, le fami durâr; Si vider le lance calate sui petti, A canto agli scudi, rasente agli elmetti, Udiron le frecce fischiando volar. E il premio sperato, promesso a quei forti, Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti, D'un volgo straniero por fine al dolor? Tornate alle vostre superbe ruine, All'opere imbelli dell'arse officine, Ai solchi bagnati di servo sudor. Il forte si mesce col vinto nemico, Col novo signore rimane l'antico; L'un popolo e l'altro sul collo vi sta. Dividono i servi, dividon gli armenti; Si posano insieme sui campi cruenti D'un volgo disperso che nome non ha.
(se è successo, non se n'è accorto nessuno...)
(disclaimer: questo blog è politicamente scorretto e non ha mai osservato la par condicio, ergo: la Moratti ci fa schifo. Tremano le vene ai polsi per il capoluogo lombardo- chissà se alle Orsoline Manzoni lo studiano? Mah!) |
postato da la Parda Flora
alle 10:41
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29 maggio 2006 |
Dubbi esistenziali |
Il papa tedesco ad Auschwitz:
Perché Signore hai taciuto? (la fede, quando c'è si vede...)
Forse perché quelli nei forni erano ebrei e non ariani cattolici? |
postato da la Parda Flora
alle 08:48
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