29 giugno 2006
E' anche una questione di tecnica!

(a me francamente in certi punti ha ricordato anche lo Sciocchezzaio di Gustav Flaubert, ma tant'è).
Un libro, bello soprattutto per chi ama la poetessa Silvya Plath, ma ormai introvabile se non in biblioteca, è Il Dio selvaggio, scritto da un suicida salvato, che pone il problema etico, non da poco, della capacità di intendere e volere del suicida al momento del gesto suicidiario.
Seri,leggibili e utili sono anche i libri di Kay Redfield Jamison, esperta statunitense soprattutto di sindrome bipolare (della quale fra l'altro è malata)che analizzano il rapporto fra depressione, sindrome bipolare e creazione artistica, e poi studia gli alberi genealogici e la familiarità della malattia.
Io stessa, se qualcuno ricorda, raccontai la storia di una giovane dottoressa di Belluno, suicida sotto la neve, come la madre e la sorella prima di lei. Ha due figli: staremo a vedere...
postato da la Parda Flora alle 16:52  

 

28 giugno 2006
Stay - Nel labirinto della mente
Anche se quest’anno non sono andata molto al cinema, sicuramente il più bel film che ho visto finora, e che credo purtroppo sia passato molto poco nelle sale, è "Stay - Nel labirinto della mente", regia del tedesco Marc Forster (Neverland,e il molto amato da me Monster’s ball), accusato dalle critiche di non avere un grande plot narrativo. Se avesse un plot narrativo sarebbe un romanzo, ho pensato io: il cinema sarà tale per qualcosa, e cioè trasmettere visivamente ciò che alle parole è proibito. Qui si tratta di un caso di psicosi, resa con un montaggio splendido, fatto di minime ripetizioni, di deja vù tremebondi, che probabilmente devono qualcosa anche al primo Matrix. Ma niente pasticci gotici o futuribili, niente templari o ordini segreti.
Ho amato Stay dalla prima inquadratura - non fatevi ingannare da facili etichette: non è un thriller, non è fantascienza... è il tentativo di far comprender cosa accade dentro una mente malata, forse in coma, in quella realtà misteriosa che spesso ci raccontano coloro che si risvegliano, e che fanno pensare esista una specie di terra di nessuno, fra la vita e la morte, nella quale l’essere decide di sé e del proprio destino, quando la realtà si scolla dalla fantasia e non si sa più riunire. In Stay, l’essere è Henry (uno strepitoso Ryan Gosling che ricordavo dall’aspro ed ambiguo Bealiver), sopravvissuto ad un incidente che ha ucciso la sua famiglia, e non a caso l’inizio del film è stato avvicinato, anche visivamente, a quello di Film Blu di Kieslowski. Ma neppure questo è il nocciolo attorno al quale si sviluppa il film (più volte Beth, la psichiatra che in origine ha in cura Henry dirà, come fosse una formula esoterica:so che non si devono svegliare, non lo dovevo svegliare), anche se Henry appare presto muoversi in una dimensione aliena ed inquietante per il suo nuovo medico. Conosce il futuro, è schiantato dal senso di colpa nei confronti della morte dei genitori e sceglie di morire nell’ora esatta del suo 21esimo compleanno, che coincide con il posto e l’ora del suicidio di un fantasmatico pittore - Tristam Reveau - che come lui dipingeva ( Henry è uno studente d’arte) e decide - dopo aver distrutto tutte le proprie opere - che il proprio suicidio avverrà sul ponte di Brooklin, all’insegna della frase “Il suicidio sarà l’opera più perfetta del XX secolo” , esgnando il proprio 21esimo compleanno (Il brutto nell’arte è tragicamente più bello perché documenta il fallimento umano"). Non esistono opere di Tristam, che le bruciò tutte , mentre esistono promettenti opere di Henry, ma il senso di colpa che lo schianta per aver, nella sua mente, sterminato la sua famiglia, non gli permette di sopravvivere a questo evento.
La scena si muove in una Manhattan gelida e disumana, e le pareti della stanza nuda di Henry sono ricoperti da una scrittura minimale che ripete all’infinito Forget me Forget me....mentre lo psichiatra Ewan McGregor pedala apparentemente sereno verso la sua sede di lavoro alla Columbia University e la sua vita familiare tranquilla ancora per un po’. Ma alla Manhattan superficiale dove Ewan si accompagna a una ex paziente suicida- “mai far l’amore con le pazienti, anche se carine” lo apostrofa Beth - corrisponde una gelida Manhattan sotterranea, dove si muove Henry e, all’insistenza di un vecchio acido, che appare più bisognoso di sfogare la propria frustrazione per le regole disattese - in metropolitana non si fuma!- che di essere probo.
Henry spegne la propria sigaretta sul proprio braccio marchiato da cicatrici, che segna il passaggio dal nevrotico allo psicotico. Una scena che nella sua assurdità potrebbe essere presa di peso da Bealiver. Non so cosa abbiano provato attori e regista nell’affrontare questo tema certamente spaventoso, ma avendo vissuto scene simili posso solo consigliare di vedere il film senza pregiudizi o particolari aspettative: l’unico consiglio è abbassare le difese psicologiche e provare a non avere paura dell’inconscio, lasciandosi andare. Una nota di merito per l'ottimo Gosling e, personalmente, un plauso al montaggio( Matt Chessé), che mi ha fatto rivivere molte scene della mia vita, anziché imitare la cinematografia Anni 70, come è stato accusato.
Infine, pur non fumando, quante sigarette avrei spento anch’io sul mio braccio, davanti alle facce orride di vecchi stupidi e incartapecoriti!
Abbassare le difese e lasciarsi andare: per chi conosce malattia psichiatrica e autolesionismo sarà un tuffo nel dolore personale e nella realtà. Al diavolo gli altri, amplino la loro mente! Grandi Gosling e Chessé!

(E anche Maurizio: io sono proprio rincoglionita, ma a te non scappa niente! ;-)
ciao, un abbraccio)

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postato da la Parda Flora alle 15:50  

 

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