L’ultimo intervento dell’Osservatore Romano mi ha fatto ricordare una battuta che immagino giri ancora per gli ospedali: ti guarirò a costo di ammazzarti. Perché spesso è questo ciò che accade. Pazienti anziani o terminali, e che si sa destinati a morire, che subiscono analisi invasive e ricevono cure pesanti, che si sa non avranno alcun esito favorevole sulla loro storia clinica, ma alleviano l’amore egoistico di parenti che non si sanno risolvere ad accettarne la morte; gratificano l’ansia di apprendere del medico, o peggio, curano il suo ego incapace di accettare il fallimento (anche fra i medici fiorisce il narcisismo, più di quanto si potrebbe augurarsi accada). Attenzione, trattenete il respiro perché quella che sto per lanciare è una notizia bomba: la gente muore, è il suo destino! E’ una grande notizia, mi rendo conto, dato che nonostante sempre più il target dei pubblicitari siano vecchietti incontinenti e portatori di dentiera, noi vogliamo dimenticare di essere mortali, di poter invecchiare concedendoci di non fingere di essere eternamente giovani, performanti e prestanti, ma al contrario di poter avere anche qualche ruga, alla faccia del botulino, e che a volte una faccia un po’ vissuta è più interessante di certe espressioni plastificate sul perenne orlo del crollo psicofisicostrutturale. E infine, di avere diritto ad una morte dignitosa. Che significa anche riuscire ad accettare, non solo fisicamente, la propria mortalità. Si parla di Eutanasia; ora con una inchiesta sui reparti di rianimazione effettuata dal Negri di Milano, di “desistenza terapeutica”. Ai miei tempi c’era invece semplicemente l’accanimento terapeutico, e tutti sapevano cosa volesse dire, e si auguravano di non doverlo subire mai - era il famoso: ti guarirò a costo di ammazzarti, dal quale sono partita. C’è una sottile, ma profonda differenza, come ogni comunicatore sa bene, fra l’impatto emotivo di un’azione attiva e quello di un’azione passiva: desisto di curarti esprime dolcemente l’abbandono di ogni speranza o sforzo, e certo può apparire colpevole a fronte invece del maschio e battagliero accanimento, che indica la ferrea volontà di non abbandonare a nessun costo il malato al proprio destino naturale, neppure quando l’ineluttabilità di tale destino sia chiara come la luce del sole. Ora mi chiedo: fra le due tipologie di comportamento, qual’ è quello che appare ad occhi appena lucidi e razionali, più evidentemente un delirio di onnipotenza, che tenta di sostituirsi, nell’eventualità esso davvero esista, all’Ente supremo, il cui primato sulle nostre vite tanto preme all’Osservatore Romano? Il primo obbligo etico di un medico è quello di non nuocere: trattenendo un corpo al di là di quello che la semplice natura consente, sto davvero non nuocendo al mio paziente? E perché la Chiesa nega al paziente il diritto alla sua autodeterminazione, al tanto sbandierato libero arbitrio, dono divino, se si preferisca, che in una società democratica dovrebbe aver accompagnato tutta la nostra vita, proprio in quello che è, presumo, il momento più importante dell’ esistenza? Quando il presidente della CEI dichiara: "pur non entrando nel merito della vicenda eutanasia, la vita va difesa sempre. In ogni suo momento, si può aggiungere, poiché sulla vita stessa, e sulla sua interruzione, nessun uomo ha alcuna signoria" curiosamente, pare scordare che anche preti, vescovi e persino il papa sono SOLO uomini, e quindi a che titolo, pontificano di ciò che altri uomini come loro, magari neppure credenti, hanno o meno il diritto di credere e pensare?.. . A dar retta alle loro stesse dichiarazioni, nemmeno loro hanno alcun diritto sulla vita di nessuno. Dubito che lasciare morire in pace un morituro, in modo il più possibile dignitoso e indolore, apra le porte dell’Armageddon, o riapra quelle dei lager, come ridicolmente si vorrebbe insinuare, perlomeno, non più di quanto, nel Settecento dei Lumi, il riconoscimento di parte dell’intellighenzia illuministica del suicidio come diritto inalienabile della libera volontà dell’individuo, contrariamente al pensiero comune e alle conseguenti previsioni dei benpensanti tradizionalisti, non condusse la società civile inevitabilmente allo sfacelo; credo piuttosto che ciò possa sbattere qualche porta in faccia ad una istituzione terrena e alla sua volontà di potere, che in nome di Dio ha commesso talmente tanti errori e nefandezze, da sentire a un certo punto il bisogno di auto tutelarsi inventandosi il dogma dell’infallibilità del proprio Boss. E oggi, personalmente, i rigurgiti sempre più frequenti di uno spirito perfettamente in linea con la Controriforma secentesca, oltre ad essere penosi in quanto visibile spia della fragilità traballante che l’istituzione terrena, al di là della dichiarazioni di forza e dei tentativi di diktat, rivela, sono davvero fastidiosi e intollerabili per una società che nel frattempo, come è invitabile destino di tutte le cose, è cresciuta e forse, almeno in parte, si è evoluta. E non basterà la legione di neo cardinali e santi, ai quali ci hanno avvezzato gli ultimi papi, i più anticonciliari che abbiamo conosciuto dopo la provvidenziale, forse, morte di Giovanni Paolo I, né basterà il tentativo di rispolverare argomenti più propri della cosiddetta fede barocca, a salvare una istituzione che sempre più si rinserra in se stessa senza dare ascolto alle voci dei fedeli che spesso inutilmente la invocano. A questo punto dovremmo, forse, interrogarci maggiormente su cosa sia realmente la vita, anche nella visione cristiana che pare avere più a cuore l’inizio e la fine della vita, che non la Vita stessa e la sua qualità, anche al di là delle considerazioni finalizzate al continuo, sotterraneo tentativo di smantellamento della legge 194 che ha dimostrato, lungi dal trasformare il nostro in un paese di donne intente ad abortire da mane a sera, di funzionare piuttosto bene, cifre alla mano. E chiederci perché per alcuni, e per le loro famiglie, le agonie devano diventare la succursale terrena di quell’inferno, che forse esiste o forse no, o forse iniziamo, alcuni, a conoscere già su questa terra. E la liceità di imporre tutto questo dolore, se permettete, è ancora tutta da dimostrare, almeno per me. Per la legge civile, esiste, dopo un certo numero di anni, la presunzione di morte, che libera genitori, figli, coniugi dal vivere un'agonia in maniera indefinita, e concede loro di poter riprendere lo scorrere della vita - ma ciò non è concesso a quanti abbiano la sventura di un caro clinicamente morto. E’ vero, ricordando una battuta singolare di Peter O’Toole in un vecchio film, Creator, potremmo pensare che l’amore ha il potere di vincere ogni cosa, anche la morte: “E’ in coma: ciò mi sconcerta, perché non è morta, quindi dev’essere viva!” e quindi l’ostinazione dell’amore, alla fine, contro ogni logica scientifica e realistica - come ho già avuto occasione di dire, per esperienza diretta, comprendere che l’amore non è sufficiente a vincere un bel niente è la lezione più dura che la vita ci possa impartire - e riusciva davvero a riportare indietro ciò che pareva perduto. Ma lo insegnava un vecchio premio Nobel, che per trent’anni non s’era arreso alla ineluttabilità della morte della moglie, e aveva avuto bisogno dell’insegnamento limpido e ingenuo di una ventenne per capirlo. Battuta, quindi, logicamente ineccepibile, ma che non può che essere visibilmente affiancata a quelle, altrettanto lapalissianamente logiche, dei tre famosi e famigerati medici al capezzale di Pinocchio, che forse dalla nostra infanzia ricordiamo, perché particolarmente esilaranti, nella loro spaventosa e stolida concezione della realtà.
Potremmo anche guardare le cose da un altro punto di vista: in realtà, chi di fronte al dolore dell’agonia irreversibile, anziché chinare la testa ed accettare di pagare il suo scotto per le colpe di una vita, in primis l’essere nato - se ad accettare la visione dottrinale cristiana, stiamo ancora pagando per quel primo peccato commesso da Adamo - chi venga lasciato all’opera della natura, senza infierire nel vano tentativo di opporlesi anche quando sia palese l’arroganza intellettuale e la crudeltà di questo, di fatto sta commettendo suicidio, giacché uno dei motivi che rendono il gesto di prendere possesso sino in fondo della propria vita nasce di fatto dall’insostenibilità del dolore che a un certo punto sommerge, con la sua devastante urgenza, ogni altra considerazione ed istinto, compreso quello più elementare della sopravvivenza. Ed è comprensibile che la Chiesa, morbosamente schiava del valore del dolore in quanto espiazione di un’eternità di colpa dalla quale pare non esserci reale via di scampo, come non ha fatto apertamente per secoli, non sia oggi disposta, neppure in modo più sottile ed occulto, a compatire né cedere il primato del potere di vita o di morte, da Dio al singolo bruscolo che sulla intera creazione veleggia, temo, irrilevante, almeno a guardare ciò che è giornalmente di quella Creazione. Eppure persino Cristo, nel momento supremo della sua prova umana, secondo i Vangeli, invocò aiuto e pietà, e visto che la sua agonia sulla croce si prolungava in modo abnorme, un centurione provvide ad aiutarlo a porvi temine più rapidamente, salvo scoprire d’essere stato intempestivo giungendo troppo tardi: quel “sangue ed acqua” che esce dal costato, infatti, parla eloquentemente a chiunque abbia una minima conoscenza della fisiopatologia respiratoria, così come sono inequivocabili i, sia pure brutali, fini “eutanasiaci” dello spezzare le gambe ai due ladroni compagni di sventura del Cristo crocifisso, al di là di ciò che può aver insegnato o meno, a riguardo, il catechismo, a suo unico vantaggio. Ma rimane il fatto che la richiesta vi fu, e anche la risposta, sia pur nata nella sua rozzezza per motivi immagino meno bioetici o deontologici di quelli che possono oggi motivare un medico del reparto di rianimazione di un qualsiasi ospedale odierno: probabilmente erano solo utilitaristici, o forse, chissà? un pizzico umanitari (udire i lamenti di un moribondo può, oggettivamente, essere sgradevole anche per chi abbia il pelo sullo stomaco). Di certo meno civili di quelli che potremmo aspirare a trovare in aule di tribunale o nei lindi reparti di rianimazione che ospitano tanti comatosi clinicamente morti, in inutile attesa del loro dovuto ricongiungimento con la Morte, e basta.Etichette: le vite degli altri |