In una intervista, parlando del proprio personaggio, protagonista del film “Le vite degli altri” Ulrich Mühe (purtroppo recentemente scomparso prematuramente) dice: “Gerd Wiesler è un convinto sostenitore del sistema, crede nel socialismo, nell’idea che tutte le persone siano uguali e che debbano essere aiutate nel loro percorso verso il comunismo. E’ assolutamente convinto di queste idee, ma come persona si ritrova in trappola, perché agisce all’interno di una camicia di forza ideologica”. La sua osservazione, che immagino nasca in parte anche da esperienza diretta del regime nella DDR prima del Crollo del Muro, visto che fra i molti collaboratori “esterni” più o meno spontanei della Stasi pare ci fosse anche la sua prima moglie, è assai acuta. Lo si capisce magari solo dopo essercisi soffermati un po’, e solleva, fra molti altri legati a questo film di Donnersmarck (che mi piacerebbe definire come certi vini: da meditazione), un problema non da poco: come sia possibile, pur aderendo in buona fede ad una ideologia, trasformarla in prassi quotidiana senza stravolgerla e senza farla così divenire, nel suo sforzo di raggiungere, affidando tale incarico allo Stato, il bene e la felicità comuni, un mostro che invece annichilisce e inghiotte gli stessi propri figli? Non a caso, l’unica vera colpa contro il Sistema nella vita dell’Altro, lo scrittore Georg Dreyman, spiato in realtà per motivi molto “borghesi”, è un suo articolo pubblicato clandestinamente da Der Spiegel sull’altissimo numero di suicidi commessi (la scelta del vocabolo ha un suo peso politico) nella Germania Est, dato statistico ormai prudentemente tenuto nascosto da anni ai suoi connazionali.
Il problema sollevato da Mühe, con buona pace dei detrattori della storia dell’URSS e dell’Est Europa, è ben più antico, se è vero che di fronte al rotolare della testa di Maximilien de Robespierre, spietato proprio perché virtuoso e puro sino al fanatismo, si disse - ecco che la Rivoluzione divora i propri figli! (e anche questo, credo, meriterebbe una seria riflessione, visto che l’azione politica di Robespierre, se da una parte fu inequivocabilmente spietata e innescò per reazione i primi moti nostalgici che favoriranno prima la dittatura di Napoleone e poi il ritorno della monarchia, dall’altra paradossalmente testimoniò la visione politica più lucida e pragmatica di quanto succedesse attorno a lui in Francia e in Europa, e come cercare di porvi rimedio). Eppure, da quell’ideologia e da quella stagione rivoluzionaria nasceranno gran parte dei valori che, elaborati nel tempo, ispireranno non solo il nostro Risorgimento, ma addirittura le moderne concezioni ideologiche di democrazia, di libertà ed eguaglianza, perlomeno in via teorica.
Ma torniamo a Wiesler: lo incontriamo come insegnante alla Università della Stasi, mentre teorizza le reazioni standardizzate del colpevole da interrogare: avrà sempre paura anziché arrabbiarsi e protestare, come farebbe un innocente qualora fosse arrestato (vorrei veder chi, sia pure innocente come un giglio, si sarebbe concesso di arrabbiarsi e protestare dopo essere stato prelevato nottetempo da agenti della Stasi. Io sinceramente credo che avrei avuto solo una fifa matta); ripeterà sempre la stessa storia con le stesse parole, perché si tratta di una storia inventata e recitata (anche qui, uno dei più grossi problemi, in corso d’interrogatorio, è quello - per deprivazione del sonno o di acqua, entrambe condizioni che, al di là del carattere di tortura psicologica che rivestono, provocano anche alterazioni fisioneurologiche - di cadere, per stato confusionale e stanchezza, in contraddizioni, interpretate come palese prova di colpevolezza, quindi si presume che l’interrogato tenda ad evitare di divagare sulla sua testimonianza con esercizi di stile per renderla meno monotona, ma cerchi invece di attenersi il più possibile alla prima versione data); alla fine, dopo un interrogatorio martellante, che dura a volte giorni senza intervalli, senza sonno, nelle cosiddette condizioni di deprivazione sensoriale, il vero colpevole crolla, e come dai tempi dell’inquisizione, nei quali queste metodologie di escussione delle prove nacquero e vennero universalmente riconosciute come valide, lo fa innanzi tutto riconoscendo se stesso come colpevole di quanto ascrittogli e poi, per ingraziarsi l’interrogante, dato che come collaboratore è ormai destinato alla delazione a vita, coinvolgendo terze persone (i presunti complici) nella sua confessione. Complici che a loro volta subiranno lo stesso trattamento, in un perverso meccanismo espansivo “ a macchia d’olio” che però - oltre a legare, a quanto pare, circa un terzo dei cittadini della DDR alla polizia politica - a noi osservatori esterni al sistema, non permetterà mai di sapere con certezza quale sia la verità. Wiesler quindi, come spiega Mühe, crede davvero che tutti gli uomini siano meccanicamente uguali, perché altrimenti la sua ragione d’essere, in una esistenza per altri aspetti solitaria e squallida, come ben dipinto dal regista, cesserebbe di esistere. Ma cos’è davvero questa uguaglianza? Dato che essa ci ricorda, lo confessiamo, molto più l’Homme machine di La Mettrie che l’Uguaglianza sancita dalla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo.
In una lunga intervista rilasciata a Philippe Santenay, direttore di Radio France Internationale, lo storico polacco Bronislaw Geremek, che con l’ideologia comunista ha sviluppato negli anni un rapporto conflittuale e complesso, oltre a esprimere con molta onestà la sua personale idea del rapporto fra l’intellettuale e il potere (altro tema forte del film di Donnersmarck, reso di stretta attualità anche dalle recenti prese di posizione di un comico italiano che, dal momento che raramente è autore dei propri testi, forse però definire intellettuale è eccessivo), curiosamente esprime un concetto molto simile alla lucida sintesi di interpretazione del proprio personaggio dataci dall’attore Ulrich Mühe. “Da noi il marxismo era il discorso ideologico ufficiale, e occorreva abbracciare il marxismo se si voleva far carriera, se si voleva essere accettati (...) Ho trovato in Malowist un insegnante marxista che non è mai stato membro del Partito Comunista, e che ha rifiutato di aderire ad esso dopo la guerra. Era gravemente malato dalla nascita: invalido, si spostava con grande difficoltà, ma sapeva creare intorno a sé un’atmosfera di competizione intellettuale. E per lui il marxismo era qualcosa di molto vivo, tanto nel suo modo di accostarsi al mondo che lo circondava, quanto nei suoi studi di storia. Questo mi ha in parte forse salvato dal marxismo fossilizzato e contaminato dalla menzogna e dallo spirito di morte che si manifestava nel discorso ufficiale. Il marxismo mi offriva un metodo e un’ispirazione intellettuale” ma prosegue Geremek “ se si esaminano i lavori di quest’epoca, si vede che fin dalle prime pagine sono imbottiti di citazioni di Stalin e Lenin; poi, anche dopo la scomparsa di Stalin, in una bella manifestazione di continuità, si trovano negli articoli degli stessi storici sovietici citazioni di Breznev! Voglio dire che in molti di questi studi non c’era niente di marxista, era tutto più tradizionale di ciò che produceva altrove la storiografia non marxista: si trattava di una specie di armatura politica e ideologica che avrebbe dovuto presentare il risultato dello studio in modo accettabile. In nessun modo era un modo di pensare. Ebbene, per me il marxismo era un modo di pensare, un modo di comprendere, e lo trovo sempre utile, anche ora, quando rifletto sui problemi della società contemporanea che osservo e della quale faccio parte. “
E il problema esistenziale di Wiesler è proprio in questo progressivo e silenzioso rendersi conto, nel quotidiano confronto con le vite altrui, che il suo modo di pensare in alcun modo può soddisfare la sua complessità di essere umano. Trovo adeguatissima, infatti, la asciutta scelta stilistica, sia del regista sia dell’attore, di comunicare lo sgretolarsi di questa “camicia di forza ideologica” prevalentemente attraverso i silenzi e gli sguardi dimessi e attenti del fedele servitore dello Stato Wiesler, osservatore progressivamente consapevole di una realtà soffocante e grigia come lo striminzito giacchettino che il capitano della Stasi indossa durante tutto il film, persino quando, dopo il 1990, continuerà in un altro modo, in fondo simbolico, a servire lo Stato - fa il postino, dopo aver per anni censurato, come punizione per il suo unico gesto d’insubordinazione e, vorrei sottolineare, libero arbitrio, la posta in transito tra le due Germanie. Come nella citazione di Geremek, Stalin e Lenin fanno capolino anche nel film di Donnersmarck. Se infatti, sottolinea sornionamente il compagno Ministro della Cultura Hempf, qualcuno (Stalin, lo soccorrerà - ironia! - uno degli intellettuali appartenenti alla Lista nera del Potere) ha cinicamente detto che “Gli scrittori sono gli ingegneri dell’anima”, sottolineandone dal suo punto di vista la funzionalità propagandistica e populista, è proprio di fronte alla vulnerabilità emotiva di Lenin, che si dice confessò di essere incapace di ascoltare sino in fondo l’Appassionata di Beethoven, mantenendo al contempo intatti i propri ideali rivoluzionari, che si innesta il tema essenziale della “Sonata delle Persone Buone”, la “Sonata che non si può ascoltare per davvero restando cattivi”, accennata al pianoforte da Georg Dreyman, autore assolutamente, sin qui, ortodosso e quindi di successo, in onore dell’amico regista suicida per l’ostracismo subito dal Partito. Sonata il cui ascolto inizierà la graduale trasformazione di Wiesler in deus ex machina non più capriccioso e stuzzicato dal potere che la sua posizione gli concede sull’esistenza altrui, ma bensì incuriosito, e poi decisamente benevolo e protettivo in riferimento ai tragici eventi che si stanno preparando. Si tratta, come giustamente ebbe a dire il regista, figlio di transfughi dalla DDR, in occasione della vittoria dell’Oscar come Miglior film straniero dopo una partenza dell’opera ingiustamente in sordina, di un film sull’eterno conflitto tra princípi e sentimenti, che implacabilmente richiede a tutti i protagonisti di questa storia il coraggio di decidersi a prendere posizione. E ognuno lo farà: come le circostanze, la propria ambizione o fragilità e la propria coscienza glielo consentiranno. Di certo lo farà, assumendosene la responsabilità, l’agente in codice HGM XX/7, con un gesto di profonda, generosa e straziante umanità (ricordiamo il suo esporsi con le uniche possibili parole di conforto e assoluzione, sussurrate in fretta alla suicida agonizzante compagna e accusatrice dello scrittore, collaboratrice della Stasi col nome in codice “Martha”, in una delle scene più intense del film), e alla fine lo farà a suo modo anche Dreyman, maturato attraverso il dolore personale e la disillusione, rispetto alla sua posizione dell’inizio, troppo ingenua e “dorata” per non rendercelo un po’ antipatico. Ma all’apparenza nessun giudizio viene espresso, almeno non con parole; allo spettatore resta, indimenticabile e bellissima, solo l’espressione di chi sa di avere, per una volta, fatto la cosa giusta, del postino Wiesler, che nella libreria “Karl Marx” di Berlino scopre di comprare il libro che gli è stato dedicato: “Die Sonate vom Guten Menschen“, appunto.
"I cannot listen to the music very often. It makes me want to stroke the heads of people, when really I have to bash them in, without mercy". Lenin, sull'Appassionata di Beethoven. Florian Henckel von DonnersmarckEtichette: le vite degli altri |