14 giugno 2007
La poesia del signor P.
Io stesso e P.
ciascuno ha un suo talento,
il suo ingegno è nel cacciare,
il mio in un’arte speciale.

Amo – più d’ogni fama –indugiare
sul mio libro in calma riflessione;
P. di me non è geloso,
a lui piace la sua arte elementare.

Quando – storia senza noia-
siamo insieme – unità di due –
abbiamo – astuzia senza fine –
di che affilare i nostri artigli.

Dopo un eroico attacco a volte
un topo resta nella sue rete;
una legge d’arduo significato
è trattenuta invece nella mia.

Fissa il suo pieno occhio brillante
alla fessura della parete;
dirigo sulla sottile conoscenza
i miei lucidi, provati occhi.

Si esalta con piccoli balzi vivaci
appena un topo ha fra le zampe;
anch’io provo gran gioia quando abbraccio
un difficile amato problema.

Noi andiamo sempre così,
non di fastidio l’uno per l’altro;
ama ognuno la propria arte
godendo d’essa, separatamente.

La pratica quotidiana lo ha reso
maestro nel suo mestiere;
portando luce nell’oscurità
son nel mio agire padrone di me stesso.

Secondo alcuni l’autore di questi versi (annotati in un quadernetto d’appunti da un monaco studente presso il monastero di Augia Dives a Reichenau e di qui, prima del saccheggio di quel monastero da parte degli Ungari, messo in salvo nel monastero di St. Paul in Carinzia, dove si trova conservato ancora oggi) sarebbe Sedulius Scotus, l’erudito irlandese che a metà del IX secolo visse presso la corte di Carlo il Calvo sotto la protezione del vescovo di Liegi, Hartgar.


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11 giugno 2007
Guillaume le Maréchal au le meilleur chevalier du monde
Uno degli ultimi libri di Duby, lo storico francese vicino al movimento storiografico de Les Annales, al quale però non aderì mai, essendo più affine all’approccio “sociale” di Jules Michelet, nasce da una fonte letteraria , una fonte straordinaria: 127 fogli di pergamena per oltre 19 mila versi, opera di Giovanni il Troviero, che da varie note nel testo appare essere stato testimone diretto di gran parte dei fatti che narra: come io vidi... dico questo perché lo vidi...
“Guglielmo il Maresciallo” venne pubblicato nel 1984, ed è uno straordinario, unico esempio di storia - serissima - narrazione. L’avventura del cavaliere, come Duby sottotitola il suo libro, apre infatti uno squarcio inedito su una classe sociale e sulla propria autocoscienza o meglio: auto rappresentazione, che altrimenti sarebbe impensabile conoscere. Molti infatti scordano che la maggior parte dei romanzi cavallereschi, in particolare del ciclo arturiano, nascono in ambienti vicini alla Chiesa, e rispondono alla precisa volontà di “addomesticare” una classe sociale violenta e prepotente, costituita in maggior parte da cadetti di importanti famiglie alla ricerca di bottino e di un buon matrimonio che concedesse loro di uscire dalla condizione di juvenes per entrare in quella, ben più prestigiosa, di senior. Una classe sociale pericolosa e destabilizzante, quindi.
Quella della Chiesa è un’opera che inizia nel X - XI secolo in Francia con il movimento delle paci di Dio, quando le autorità ecclesiastiche, in mancanza di un altro potere centrale in grado di farlo, si assunsero la responsabilità di cercare di garantire quella pace nel regno che sarebbe stata fra i doveri del re, e continuarono poi con le crociate e la creazione di una immagine cristiana (fittizia) della cavalleria che ne moderasse gli eccessi, fornendo un codice di comportamento moralmente e socialmente accettabile.
Eppure “Gugliemo il Maresciallo” ha sollevato molte discussioni in ambito storiografico: non ha note a piè di pagine, non ha bibliografia, insomma non rispetta nessuno dei crismi che caratterizzano il saggio storico canonico, pertanto tale classificazione gli è stata spesso negata e questo bel libro resta un ibrido difficile da catalogare. A mio avviso, al di là della gradevolezza e facilità di lettura, che consentono anche a chi non sia uso a frequentazioni storiche la fruizione di questo testo, L’Avventura del cavaliere - si ricordi: il miglior cavaliere del mondo! - è un bellissimo saggio storico, che ci conduce dentro fenomeni culturali e antropologici, che usualmente gli storici possono osservare solo dall’esterno, quando addirittura non devono accontentarsi di ipotizzarli. Un episodio unico, figlio dell’eccezionalità della fonte dalla quale nasce, ma che illustra splendidamente un modo “altro” di fare storia.
In effetti, la nascita di questi nuovi poteri locali, a cavallo dell’anno Mille, legati alla figura del miles e all’incastellamento, sono il fil rouge di tutta la produzione storiografica di Duby, a partire negli anni Cinquanta dalla sua ben nota tesi di dottorato sul Mâconnais fra XI e XII secolo. Egli si muove quindi, con una semplicità che non deve ingannare, in una materia non facile , ma che gli è propria, coronando in un certo senso una vita di ricerca.
L’avventura del cavaliere non è altro che il lungo poema dedicato alle gesta di Guglielmo, voluto espressamente dal figlio come monumento a ricordo del padre, anche se tale poema non parve conoscere gran fortuna: ne vennero trascritte solo poche copie, principalmente ad uso di familiari del Maresciallo, in occasioni di speciali eventi familiari, quali i matrimoni dei figli. Così, del Maresciallo, spiantato figlio cadetto che alla fine della sua vita aveva raggiunto la posizione di reggente del regno d’Inghilterra, in quanto tutore del novenne Enrico III il Giovane, figlio di Giovanni Senza Terra, forse sappiamo più noi della generazione che lo seguì.
La sua vicenda ci serve per introdurre un problema storiografico che da March Bloch in poi affascina gli storici: la nascita e il significato della nobiltà di sangue, unita al mito della cavalleria. Infatti, nel più antico diritto barbarico, non esisteva l’ereditarietà di titolo né del possesso del feudo, ovvero (in questo contesto) della terra la cui proprietà eminente restava del re, che quindi ne poteva disporre, affidandola a suoi fedeli prescelti, e ne rientrava in possesso alla loro morte. Invece, a cavallo dell’anno Mille iniziano a nascere nuovi poteri locali che accampano nuovi diritti nella direzione dell’ereditarietà del feudo e mano a mano si sostituiscono al potere regio in declino e rendono il castello il perno della nuova organizzazione sociale del territorio.
Una organizzazione frammentata, che si appropria di prerogative e diritti un tempo appannaggio esclusivo del re, e si incardina sulla protezione concreta offerta dal castellano a quanti vivano nel circondario.
Proteggere e dominare, s’intitola significativamente un saggio di Aldo Settia dedicato proprio all’incastellamento e al popolamento nell’Italia medievale, e nulla potrebbe meglio sintetizzare il senso della fortificazione che accompagnò, a cavallo del Mille, l’ultima grande invasione barbarica, quella degli Ungari. Mentre nelle città le fortificazioni furono spesso volute dai vescovi, uniche autorità cittadine rimaste a disposizione dello sgomento del popolo, fortificazioni che in effetti spesso furono in grado di fermare l’azione devastatrice degli Ungari, in cerca soprattutto di prede facili da razziare. Sarà per esempio il caso di Bergamo, risparmiata per la inviolabilità delle sue mura.
Le posizioni classiche al riguardo di nobiltà di fatto e nobiltà di diritto vengono per la prima volta affrontate da March Bloch, che immagina che la cavalleria di diritto sia una nuova cavalleria, che si oppone all’antica nobiltà di fatto, creando così una nuova nobiltà. La nuova visione, portata da Duby, è che la cavalleria di diritto nasce come evoluzione della cavalleria di fatto all’incirca nell’anno Mille e nel secolo seguente. Fra queste due posizioni, nonostante le riflessioni convincenti di Flori, si dibatte ancora.
Presso le popolazioni barbariche, il diritto di portare le armi era prerogativa degli uomini liberi, in contrapposizione agli schiavi. Ogni libero faceva parte, all’eventuale chiamata, dell’esercito del re, e dall’opera di Tacito (forse non al di sopra di ogni sospetto) scopriamo che i giovani Germani acquisivano lo status di adulti proprio attraverso una cerimonia che prevedeva la consegna loro delle armi, così come agli adolescenti romani veniva consegnata la toga virile. Nasce quindi il mito di una specie di rito iniziatico, di passaggio, che non a caso affascina e occupa gran parte della produzione storiografica sull’argomento da parte di Franco Cardini, ed esiterà nel cosiddetto adoubement o investitura, cerimoniale del quale ben presto s’impadronirà la Chiesa.
Quel che è certo è che con il medioevo muta il senso militare della cavalleria in seno all’esercito, rispetto a quello che ne era stato il ruolo a Roma. Dall’Est, da quei paesi immaginati come patria dei biblici e mostruosi Gog e Magog, si gettano sulle fertili terre europee uomini che combattono a cavallo, imponendo nuove forme alle armi e allo stile di combattimento. Solidi sulle loro cavalcature, anche grazie a bardature nuove, essi usano archi micidiali, e costringeranno i guerrieri europei a cimentarsi con un nuovo uso della lancia, che diviene più lunga e sposta eccentricamente la propria impugnatura, ad usare spade più pesanti, e ad allenarsi a creare gruppi affiatati che ,con la forza dirompente dei loro cavalli, in presenza di terreni favorevoli, siano in grado di spezzare le linee nemiche preparando l’azione dei pedites o fanti.
Da semplice funzione di staffetta, lentamente la cavalleria si trasforma in corpo d’élite, “di cui signori e principi detengono il comando”.
Nell’arazzo della regina Matilda , voluto per celebrare la vittoria normanna di Hastings nel 1066 e quindi la conquista dell’ Inghilterra da parte del duca Guglielmo, possiamo chiaramente individuare la trasposizione visiva della trasformazione di questo uso militare della lancia, che sfrutta la forza nuova offerta dalla cavalcatura e dal peso che il cavaliere può imprimere al colpo, micidiale, sferrato dall’alto al basso, sfruttando come forza penetrante anche lo slancio della cavalcatura. Cambiano, rinforzandosi, elmi ed armature, gli scudi s’ingrandiscono e assumono prevalentemente forme a mandorla o a goccia che permettano una difesa anche dal basso, le spade si allungano e divengono più pesanti, uscendo dall’esclusività dello stretto corpo a corpo...
Il cavaliere, così come siamo abituati a pensarlo, sta prendendo forma.
Ma lentamente chi pratichi il mestiere delle armi, il cavaliere, si trasforma anche in nobile. E la sua è una nobiltà di sangue, ereditaria, non più di fatto, esaurita nell’esperienza del singolo e nel suo rapporto con il suo signore.
All’inizio, sino a tutto il XII secolo, la professione di cavaliere è aperta a tutti coloro abbiano i mezzi, economici e fisici, per esercitarla, e in taluni casi essa è un autentico mezzo di promozione sociale, attestando la presenza di una minima fluidità interclassista. Paradossalmente, abbiamo infatti anche esempi di cavalieri contadini - è la famosa comunità nata attorno al lago Paladru in Francia - o cavalieri di condizione servile; le discriminanti sono la robustezza fisica e il possesso di armi e di un cavallo, che col passare del tempo diverranno sempre più perfezionati (si svilupperà anche la selezione e l’allevamento di nuove razze equine) e costosi.
A partire dal XIII secolo si ha invece la chiusura dell’acceso allo status di cavaliere, status che è oramai è riservato solo a chi sia figlio di cavaliere, e per dirla con Jean Flori “la nobile corporazione di guerrieri d’élite diviene corporazione di guerrieri nobili, e via via, confraternita d’élite della nobiltà” ma ormai siamo alla fine del medioevo, e l’istituzione si avvia ormai a divenire mito, consacrando se stessa.

Guglielmo, per quanto ci è dato sapere, visse approssimativamente fra il 1145 e il 1219; la sua è la vita di un cadetto, che essendo escluso dalla linea agnatizia, deve provvedere da sé alla propria sistemazione. Come peraltro ogni giovane cavaliere, che cioè, come ci ha insegnato Duby, non si sia ancora sposato e soprattutto non abbia formato famiglia mettendo al mondo un erede: solo in tal modo si conquistava l’ambita posizione di senior, attorno al quale ruotano altri “giovani” cavalieri, ponendo anche le basi per quell’amor cortese nei confronti della dama del signore che, secondo Duby, formava un legame in più fra il senior e la sua curtes. Da bravo cadetto dunque Guglielmo, erede di un maresciallo, ovvero servitore alla corte del re d’Inghilterra, inizia la sua carriera di cavaliere errante con la partecipazione ai tornei.
Questa forma di lotta, che a volte giungeva alla morte dei partecipanti, era condannata dalla Chiesa, come appare in numerosi exempla di predicatori, ma ciò non ne diminuisce il fascino per i giovani cavalieri. Occasione di bottino - il cavallo e le armi del nemico vinto, più l’eventuale riscatto per la sua liberazione quando esso venga catturato - che si srotolava nell’arco dell’anno con un preciso calendario che regolava i flussi degli juvenes fra Francia e Inghilterra, ci permettono di seguire le gesta, più o meno eroiche, dei partecipanti a uno dei topoi leggendari del medioevo. Ne risulta soprattutto polvere e sbruffoneria, una certa grettezza unita a calcolo - vedremo l’accortezza di Guglielmo nel muoversi fra più promesse spose, alla ricerca di quella maggiormente altolocata e ricca - una largesse che appare più sfrontata arroganza che generosità d’animo, in una classe che disprezza il denaro e lo vede solo come strumento per l’immediata soddisfazione dei propri divertimenti e delle proprie esigenze materiali. Siamo quindi ben lontani dal gentile signore di tanta letteratura cavalleresca. La stessa prousse, la prodezza, cuore della cavalleria, è spesso semplice opportunismo camuffato - c’è chi attende i cavalli scossi dei cavalieri abbattuti da altri, oppure scende fresco in campo solo nell’ultimo giorno, per poter così accumulare più facilmente bottino.
Anche di fronte alla morte, non appare quello spirito cristiano che la chiesa vorrebbe contrabbandare: nei rituali della morte del Maresciallo, scarso appare il pentimento di un cavaliere consapevole soprattutto del proprio valore e della propria aderenza ad un codice etico che poco o nulla ha a che fare con quello pretesco. Nei suoi interessi vengono prima la famiglia, la sistemazione delle cose terrene, compresa la sorte del giovane re affidatogli, le eredità e il distacco da quei compagni d’armi che ancora gli siano accanto, nonostante i molti anni passati.
Solo alla fine del distacco dal mondo, dal suo mondo, Gugliemo ricorda che in occasione della crociata nel 1185 s’era promesso all’Ordine dei Cavalieri Templari, nei quali evidentemente riconosce la sintesi dei due princìpi portanti della sua vicenda umana, in quanto nato nella classe dei milites, e quindi condannato alla colpa dal tabù del sangue versato. Quale espiazione migliore, quindi, di quella di donarsi a questo ordine di monaci guerrieri?
Una volta che tutto è in ordine, entrano i preti, e Guglielmo, sfinito da due mesi di agonia, si prepara a morire: rifiuta il cibo, nonostante le cure affettuose dei figli, e attende.
Le sue ultime parole saranno: “Muoio. Vi metto nelle mani di Dio. Non posso restare più con voi. Non posso impedirmi di morire.”
In esse vi è tutto il suo carattere, l’orgoglio di chi sa di essersi fatto da solo giungendo sin là dove nessuno si sarebbe aspettato. Non prega per sé, prega per chi rimane, e di fronte alla morte china il capo solo come lo può fare chi, dopo mille battaglie, sa riconoscer il momento della resa. Non pare avere dubbi circa il suo destino, così come non pare in realtà averne avuti mai: gran cavaliere, Guglielmo, accorto nelle sue cose, ma non certo una testa fina. Più braccio che cervello, e in fondo anche questo è un tassello in più per un ipotetico ritratto di una classe ancora troppo tronfia e paga di sé per porsi dubbi o domande.

"Qu’est-ce que manier les armes?
S’en sert-on comme d’un crible, d’un van,
d’une cogne ?
Non, c’est un bien plus dur travail
Qu’est-ce donc que chevalerie ?
Si forte et si hardie,
et si fort coûteuse à apprendre
qu’un mauvais ne l’ose entreprendre […].
Qui, en haut honneur se veut mettre,
lui convient d’abord entremettre
qu’il en ait été à l’école."


Ma presto le cose cambieranno, e a suo modo, Guglielmo è già il monumento di qualcosa che non esiste più da decenni.

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postato da la Parda Flora alle 13:30  

 

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