Io stesso e P. ciascuno ha un suo talento, il suo ingegno è nel cacciare, il mio in un’arte speciale.
Amo – più d’ogni fama –indugiare sul mio libro in calma riflessione; P. di me non è geloso, a lui piace la sua arte elementare.
Quando – storia senza noia- siamo insieme – unità di due – abbiamo – astuzia senza fine – di che affilare i nostri artigli.
Dopo un eroico attacco a volte un topo resta nella sue rete; una legge d’arduo significato è trattenuta invece nella mia.
Fissa il suo pieno occhio brillante alla fessura della parete; dirigo sulla sottile conoscenza i miei lucidi, provati occhi.
Si esalta con piccoli balzi vivaci appena un topo ha fra le zampe; anch’io provo gran gioia quando abbraccio un difficile amato problema.
Noi andiamo sempre così, non di fastidio l’uno per l’altro; ama ognuno la propria arte godendo d’essa, separatamente.
La pratica quotidiana lo ha reso maestro nel suo mestiere; portando luce nell’oscurità son nel mio agire padrone di me stesso.
Secondo alcuni l’autore di questi versi (annotati in un quadernetto d’appunti da un monaco studente presso il monastero di Augia Dives a Reichenau e di qui, prima del saccheggio di quel monastero da parte degli Ungari, messo in salvo nel monastero di St. Paul in Carinzia, dove si trova conservato ancora oggi) sarebbe Sedulius Scotus, l’erudito irlandese che a metà del IX secolo visse presso la corte di Carlo il Calvo sotto la protezione del vescovo di Liegi, Hartgar.
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