05 maggio 2007
Mi piaceva
"Un notte di quelle. Terribile di buio e tempesta.
Berlino aveva ceduto, nel tepore delle case, ad un sonno appiccicoso, sotto le coltri invernali.
Passeggiavo, vago, in Alexander Platz; tre bicchieri di vodka già bevuti e il bavero alzato.
Presto avrei preso il treno per Praga.
C'erano delle puttane in cerca di clienti, poliziotti in cerca di puttane, barboni in cerca di calore, uomini in cerca di soldi.
Preti in cerca di anime.
Un tale, tornato dal fronte, era scampato dalle mine italiane. Fortuna, diceva, solo fortuna.
Fischiava il vento e la bufera urlava, presto sarebbe arrivato Carnevale.
Sognavo il caldo dell'altro mondo.
Mi venne incontro una rossa, mi chiese da accendere, le proposi di venir via, sull'oceano, con me, una carrozza mi aspettava.
Lei volle restare.
Credo che non si possa partire ubriachi in una notte di tempesta.
Sognavo il caldo delle Americhe. Ma più che altro mi sentivo uno stupido in più, in Alexander Platz."

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04 maggio 2007
Perché non mi fido (più) dei parolai di mestiere
Georges Duby, a differenza di altri celebri colleghi, pare non abbia alle spalle grandi storie di vocazioni per il proprio mestiere di storico (lui lo definiva proprio come "lo stare a bottega degli artigiani"). In una trasmissione registrata per Radio France Internationale, così racconta il suo primo approccio alla storia: casuale.
“All’inizio volevo studiare filosofia: ero tentato, come tutti, come molti ragazzi che uscivano dal liceo in quel periodo, nel 1937. Il professore di filosofia mi disse: Mi dia retta, non lo faccia. Per quel che so di lei, è meglio che si occupi di cose piuttosto che di parole.”
Ecco, nonostante io con le parole, professionalmente, ci abbia avuto a che fare parecchio, o magari forse per questo, non posso non capire, e apprezzare, il senso profondo di quel “occuparsi di cose, piuttosto che di parole”. A parte il fatto che di filosofi veri - pochi. Molti storici della filosofia, più facilmente, e a volte nemmeno quello: occorrono una certa dose di disciplina e di umiltà, per saperlo fare davvero.
Le parole senza sostanza volano, volano, si avvitano su se stesse, possono rendersi indecifrabili per il gusto di parere più profonde, spesso sono biforcute come la lingua del serpente, dicevano i nativi americani e forse non avevano tutti i torti perché, alla fin fine, non costa nulla dirle e dalla volatilità delle parole sono nate spesso guerre e molto dolore (il "gentleman agreement" è poco di moda, attualmente): le cose, con il loro peso, invece restano, fedeli a se stesse. Nel bene e nel male. Anche in questo regno della parola e della loro impalpabilità. E se c’è anche una pesantezza buona, del mondo, che lo rende solido sotto i nostri piedi, che ci fa fidare di un altro essere umano, che ci fa godere dell’essere vivi, anche quando passa attraverso le parole, nasce sempre e solo dalle cose, le uniche che restano davvero.
Ecco perché quest’aneddoto mi ha colpito, anche se di parole Duby ne ha prodotte a migliaia di migliaia, basti pensare alla sua arcinota tesi di dottorato, lezione di metodo ancora valida a distanza di decenni. E, credo, ecco perché dei parolai di mestiere, così diffusi, dubito - un po’ per istinto, un po’ per esperienza. Non conoscendo il peso delle cose, non essendo abituati a rispettare il peso delle cose, le offendono con molte parole inutili, o peggio ancora false, doppie come una moneta, inventate, e se ne compiacciono, o forse non se ne rendono neppure conto, perché le loro mani non si sono mai sporcate di quello “stare a bottega”, che è invece così onorevole. Finite, per legge, l’aristocrazia di spada e di toga, ora subiamo la strisciante e stucchevole aristocrazia di parola.
Ma l’aristocrazia, la storia lo insegna nelle cose, è destinata a soccombere e a rassegnarsi ad imparare l’umiltà della “bottega”, del laboratorio artigiano che produce quelle “cose” che rendono possibile la nostra vita, e la arricchiscono e forse la rendono lontana e incomprensibile ai parolai - per nostra fortuna!

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03 maggio 2007
E vai col Pipppero...
'NDRANGHETA: MILANO, 20 ARRESTI, SEQUESTRATI 250 KG COCA
la Polizia di Stato di Milano, coordinata dal Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine, e' impegnata in una vasta operazione contro la 'ndrangheta calabrese con ramificazioni in varie citta' d'Italia e con un forte radicamento in Lombardia per l'esecuzione di 20 ordinanze di custodia cautelare. La Squadra Mobile di Milano ha eseguito 20 arresti e perquisizioni a carico di appartenenti ad un'organizzazione criminale, legata a cosche della 'ndrangheta calabrese, responsabile di reati che vanno dall'estorsione al traffico internazionale di droga. Nel corso delle indagini sono state eseguite 70 perquisizioni con un sequestro record di 250 chili di cocaina proveniente dall'America del Sud e fatto arrivare in Italia tramite il Senegal. L'operazione ha inferto un duro colpo, disarticolando la rete degli interessi economici della cosca calabrese "Morabito – Bruzzaniti – Palamara" in Lombardia. All'operazione hanno partecipato anche gli uomini dell'Interpol in Brasile, Argentina, Svizzera, Spagna e Senegal.


Il lancio d'agenzia è questo: ciò che non dice è che quando gli uomini della Squadra Mobile, più qualche aiutino, hanno fatto irruzione notturna nell'Ortomercato milanese, pare si siano trovati di fronte una scena in pieno stile proibizionismo: in pratica, musica e gente che ballava ovunque, pippando coca a tutt'andare, persino nelle celle frigorifere - e poi leggiamo più sani e più belli sugli effetti nocivi dei radicali liberi...
Una discoteca clandestina, insomma, con tutti i crismi.
Altro che ballo del Pipppero, amici dei servizi segreti bulgari, come cantavano Elio e le Storie Tese...
(vorrei ricordare, così giusto per la cronaca, che questi pazzi sono tutti diplomati al Conservatorio, a partire dal flauto traverso di Elio)
:-)

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02 maggio 2007
Caro D.
Caro D.

Affronti, nel tuo post, due differenti argomenti: il linguaggio, e la capacità di astrarsi dalla contemporaneità, per poterla porre a quella minima distanza che consenta di darne un giudizio, che non sia quello conformistico - operazione quest'ultima che intriga da tempo, come problema euristico e metodologico, gli storici contemporaneisti, e che credo si sia appurato ormai essere insolubile, nella sostanza, addirittura per tutto ciò che riguarda la storia, che infatti è elastica e duttile e destinata ad essere, nella sua conoscenza, perennemente superata da se stessa per obsolescenza, per così dire, e finisce col diventare storia anch'essa. Infatti c'è anche una storia e antropologia del pensiero storico.
Ma non riuscire ad uscire dalle categorie culturali della propria epoca e del proprio ambiente di formazione, credo non sia imputabile a null'altro che non sia il normale funzionamento del sistema nervoso, in particolar modo per ciò che riguarda l'apprendimento. Perciò credo che essere consapevoli dell'esistenza dell'impossibilità di ottenere una visione oggettiva, non pregiudiziale, della realtà, ma sforzarsi di ottenerla, sia quanto, onestamente e realisticamente, si può chiedere, dall'uomo qualunque (famigerato: qualcuno lo ricorderà anche come, per breve tempo, partito di nostalgie fascistoidi all'indomani della fine della II guerra mondiale) sino all'intellettuale più impegnato.
Nessuno, immagino, prenderebbe sul serio oggi un progetto pedagogico come l’Emilio di Rousseau, se non come provocazione alla riflessione sul fatto che, evidentemente, ogni epoca ha avuto i propri conformismi!
Forse quel non-conformismo al quale fai riferimento potrebbe essere più familiare a una perdita del Sé, che appartiene però alla cultura orientale, non alla nostra, e ormai, in epoca di new age imperante, è divenuta conformistica anch'essa.
D’altra parte, la società civile, il patto sociale o come lo vuoi chiamare, sono imprescindibili dallo stato umano, prima ancora che per considerazioni politiche o filosofiche, per considerazioni psicologiche: chi è solo, per quanto portatore “sano” di una visione oggettiva e disincantata della realtà, è comunque destinato alla follia e alla morte. Lo sa bene il sistema carcerario, che prevede come massima punizione l’isolamento, e lo sa bene anche la chiesa, non favorevole, se non con molte titubanze, all’eremitismo come forma di espressione della propria religiosità, e per fortuna, aggiungerei: in caso contrario saremmo afflitti, immagino, da un numero infinito di profeti e visionari! Lo testimonia molto bene l’equilibrio della regola francescana, che prevede una severa selezione degli aspiranti eremiti, che saranno poi non soli ma a due a due, con ruoli alternanti e reciproci, nella loro alternanza, di “madre” e “figlio”, di guida e discepolo, proprio per evitare gli eccessi e gli sbandamenti psichici ai quali può portare la solitudine protratta.
E’ quindi accentando di restare nella società, e non “rifugiandosi sull’”Aventino” come spesso verrebbe voglia di fare, che si svolge il proprio ruolo di esseri umani, che può anche solo per questo, divenire politico, nel senso più squisitamente etimologico ( e io credo anche reale) del termine, pur se è innegabile che l’esperienza della solitudine psicologica e del conseguente disagio si consumano sempre più spesso nel chiasso e nell’apparente edonismo sfrenato della nostra società..
Altro discorso vale per il linguaggio nella comunicazione (tautologico: ha forse il linguaggio altro scopo?).
Da una parte sono reduce da un dialogo piuttosto serrato attorno al sito di un professionista del settore, piuttosto disperato circa la nostra possibilità di non avere mai più una lingua corretta grammaticalmente, soffocata da professionisti della comunicazione sempre più ignoranti e beceri e da una scuola che sovente fallisce il proprio scopo educativo, producendo una generazione di chiacchieroni ignoranti, che vanno ad ingrossare nella vita quotidiana, la già fastidiosa categoria dei tuttologi che ci ammorbano da una qualsiasi trasmissione televisiva che si voglia dare un certo tono; dall'altra, ho appena finito la lettura di un saggio che, fra le altre cose, evidenzia proprio l'importanza del linguaggio, e del salvataggio di molte lingue - che come il ghepardo delle nevi, la foca monaca e il panda, ma con molto meno clamore - si stanno estinguendo, assieme alla cultura che le aveva generate. Ciò appare più evidente nella produzione letteraria di quei paesi che hanno vissuto un passato coloniale, e che pian piano stanno recuperando la loro lingua madre, vissuta, assieme alla propria cultura, a lungo quasi con vergogna.
Anche questo è un discorso politico: dall’Illuminismo la classe intellettuale italiana è dolorosamente consapevole della pochezza di mezzi a sua disposizione per raggiungere un popolo quasi totalmente analfabeta: basti vedere le percentuali di italiani votanti, quando circa un secolo fa il suffragio venne esteso a coloro, maschi, che fossero in grado di scrivere almeno il proprio nome: se non ricordo male circa il 9% degli italiani!
(Né oggi va molto meglio, tutto sommato. Secondo dati raccolti nel 2005 dall’Ulna - Unione nazionale lotta all’analfabetismo: “Sei milioni di italiani non sanno né leggere né scrivere. Venti milioni possiedono solo la licenza elementare. Oltre trentacinque milioni sono “ana-alfabeti”, categoria che comprende gli “originari” e gli appena alfabetizzati.”)
Il lavoro di alfabetizzazione scolastica, benché si legiferasse al riguardo praticamente già all’indomani dell’Unità, doveva quindi necessariamente venire prima di quello politico, anche se poi al riguardo vi sono colpevoli manchevolezze: mi riferisco per esempio alla scarsa rilevanza che, nella sua storia, il PSI ha dedicato alla questione del Mezzogiorno e alla sua realtà contadina feudale, concentrandosi invece sulla educazione alla presa di coscienza del proprio status e dei propri diritti pressoché solo relativamente al proletariato cittadino, che come tutti sappiamo si concentrava nel Nord ovest - fatto questo che, fra l’altro, lascerà ampi spazi vuoti che altre ideologie occuperanno, come sempre avviene in politica, ed avrà un suo prezzo con l’avvento del fascismo.
Ora, come diceva Warhol, quindici minuti di popolarità non si negano a nessuno, e i mostruosi risultati di questa politica comunicativa sono tristemente sotto gli occhi di tutti: la “gggente” aspira sempre più al suo quarto d’ora di celebrità, quale che esso sia, a scapito di civiltà e qualità, e la spazzatura si avvia ad essere risorsa “nutritiva” non solo per gli abitanti delle bidonville del Terzo mondo, perlomeno da un punto di vista culturale.
In questo contesto, condividere i tuoi timori, scaturiti anche dalla visionarietà che contraddistingue gran parte dell’opera di Buzzati ( e per fortuna, non solo sua, ché visioni incredibilmente limpide del futuro prossimo venturo non appartengono solo a lui: basta avere la pazienza di cercarle in mezzo al ciarpame comunicativo) è quasi d’obbligo. Sarebbe però bello trovare anche qualche risposta pragmatica a tanta desolazione...

(inevitabile, Barbarians di Hans Zimmer!)

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01 maggio 2007
"A levante e a ponente il mondo aspetta che passi la tempesta"
La neve somiglia al fiore di ciliegio
il tempo indifferente l’una e l’altro cancella.

Showa-Tennō (Hirohito), estate 1945

Buon Primo Maggio a tutti!

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29 aprile 2007
Ieri sera...
...ho riascoltato per caso questa vecchia canzone della PFM, a ricordare un concerto arrivato con un giorno di ritardo, purtroppo. Demetrio Stratos era morto a New York il giorno prima.

Maestro della voce

Uno come me
scarpe bianche come me
abitava le ringhiere a nord della città
cantava come un matto
di notte e di giorno
viveva la sua estate anche d'inverno.
Di giorno e di notte io


per campare
parlo di stelle, di donne ed ho canzoni da imparare
in giro per Milano
sotto un cielo sempre nero
occhi chiari e un'espressione da guerriero


Con le nostre facce stanche
un mattino
ci trova insieme a camminare
parli con me
ore ed ore
non nascondi le paure
Maestro della voce solo una canzone
Maestro della voce per cantare dammi una canzone.

Uno come me
scarpe bianche come me
canta sempre per la gente
quante volte ci ho provato
quante volte ci proverò
a far cantare le mie mani

Maestro della voce per cantare dammi una canzone
Maestro della voce per cantare dammi una canzone.

Dammi una tua canzone.



E mi è capitato di ripensare a queste cose...


(purtroppo la qualità del mezzo non permette di apprezzare la straordinaria qualità nasale del giro di basso che inizia la canzone, la bellezza della chitarra che poi entra, ed infine quella della batteria... me ne spiaccio profondamente: andrebbero ascoltate in cuffia, ad occhi chiusi e mente vuota)

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