23 novembre 2007
Parla per farsi compagnia, oppure tace...
Mah, caro A., non so perché ma mi vien da descriverti la situazione: sono le sette e 20, son sveglia già da un po’ perché devo prendere una medicina a stomaco vuoto, e poi restarci (a stomaco vuoto) per venti minuti, mezz’oretta perché venga assorbita, così mi sono anche già fatta l’iniezione del mattino, e ora sono finalmente al secondo caffè a fila (americano, una broda immane, ma per una serie di motivi ho finito in casa per abituarmici) e apro il pc per dare un’occhiata al giornale e vedere eventuale posta etc. prima di immergermi in una serie di cose noiosissime.
So di essere stata lunga, in quei post, ma a parte che mi è rimasta una insofferenza dei tempi nei quali per dire, facevo un’intervista di due ore, la sbobinavo diligentemente, alla ricerca della “voce precisa” dell’intervistato da cogliere per poi renderla nello scritto, e poi dovevo condensare il tutto in un paio di botta e risposta, ché quello era sovente lo spazio che mi davano e io avevo l’impressione di tante voci, tante storie che restavano mute, ci sono anche argomenti ai quali la sintesi non rende giustizia. Nel mio caso, il primo post della serie, che nella mia ingenua convinzione conteneva implicite tutte le cose che son venute dopo, ed invece hanno richiesto pagine e pagine di spiegazione.
Ieri riflettevo:

a.che senza l’intervento tuo e di Andrea, non avrei avuto lo stimolo per i due post successivi, nel desiderio di chiarire la mia opinione;

b.che l’apertura dei commenti in fondo, come mi aspettavo, non ha portato poi questa rivoluzione copernicana... chi mi scocciava di più per riaprirli o altre persone con le quali c’è un rapporto più profondo, non si sono praticamente fatte vive, e in generale sarei tentata di tornare al vecchio sistema, che mi pare rendeva la vita più semplice a tutti: chi leggeva capiva quel che gli pareva (cosa che, restandomi ignota, avevo messo in conto tranquillamente e non mi turbava) ed ero libera di agire di conseguenza, dato che neppure a me interessa convincere, però vorrei essere capita, e quando vedo che c’è il fraintendimento, è più forte di me, devo spiegare, magari sino alla noia. E questo è certamente un problema mio.

Stamattina posso aggiungerci, dopo la lettura dei tuoi commenti, che capisco la pigrizia - potessi dormire di più... anzi, visto che l’inverno non è stagione che ami particolarmente, fantastico su come sarebbe bello poter andare in letargo, tipo uno scoiattolo, che ogni tanto si sveglia per mangiucchiare un po’, poi si rimette a nanna sino a primavera; che probabilmente il mio innato perfezionismo sta prendendo, in un momento di mio abbassamento della guardia, il fastidioso sopravvento (vedo sempre quello che mi manca, quello che “colpevolmente” non so ancora...); che ho la passione della storia, ma non mi sono mai sognata che essa sia la sola chiave di lettura del mondo, o quella privilegiata: guai se fosse così, più vasto è l’orizzonte, e meglio ci vedi. Però è anche vero che, se la nuova storiografia dialoga sempre di più e sempre più volentieri con altre discipline (la geografia, l’archeologia, l’etnografia, la statistica, l’antropologia, la sociologia, l’economia, a volte persino la psicanalisi, etc...) una scelta sei costretto a farla, anche se sei terribilmente curioso e onnivoro e ti piacerebbe sapere tutto, che questo è l’amaro privilegio di crescere: capire che per avere una cosa devi rinunciare ad un'altra, anche se, (cosa buffa, mi sono sempre sentita paragonare ad un uomo, cosa che non capisco più di tanto - pare io sia un "uomo d'ordine", che ragioni e addirittura guidi come un uomo,e così via), una volta mi è stato detto che ho un po’ l’animo di un “uomo rinascimentale”, che non trova nulla che non gli competa. E lo diceva pure Terenzio (significativamente nel Punitore di se stesso!): sono un essere umano, e non c’è niente di umano che mi sia estraneo.
Così, che ti devo dire: probabilmente sono anch’io come il marinaio di Biamonti che «Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno». E in genere la gente così, non la si sta a sentire, la si scansa. Quindi forse dovrei tornare ai miei deliri solitari, e basta.
E probabilmente non è un caso che io abbia scelto come colonna sonora sempre di Davide Van de Sfroos, la Balada del Genesio che ha fatto nella sua vita un po' di tutto, ma come dice lui:

sun el Genesio e questu l’è tütt…
cun qualsiasi vestii, suta…sun biùtt


(con qualsiasi vestito, sotto sono nudo).

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postato da la Parda Flora alle 07:45  

 

22 novembre 2007
...e continuiamo a parlare di storia.
Allora, viste alcune considerazioni a commento del post precedente, continuiamo pure a parlare di storia e storiografia.

Andiamo per ordine, dato che mi si chiede “Comunicativamente però non comprendo a chi è indirizzata” la riflessione su storia e memoria. A parte che a capocchia io potrei chiedere a un qualunque blogger perché oggi ha scritto, chessò, del fatto che ha mal di pancia, e potrei ottenere immagino due risposte: perché mi andava di dirlo; perché magari fra chi mi legge c’è qualcuno al quale può interessare la mia salute, e mi sembrano entrambe risposte sensate e legittime.
Così, il primo post era indirizzato ..boh, diciamo per comodità a me stessa, perché non sapevo chi potesse essere interessato a quel tipo di riflessioni, quindi era interlocutorio e buttato al vento: chi vuole se lo acchiappa.
Lo ha fatto Andrea, riportando a sua volta le considerazioni su parte del tema, di un altro storico (a me sinceramente la cosa che colpisce di più è l’interpretazione data da Ginzburg) e allora ho deciso di copi-incollare un pezzo di una lunga conversazione con alcuni docenti universitari, voluta e poi messa anche in Rete qualche tempo fa, dagli studenti della Statale di Milano. Io ricordavo delle considerazioni molto simili fatte da Merlo in occasione di una commemorazione pubblica del Giorno della Memoria della Shoa, oltre a quelle sparse nei suoi libri e nelle sue conversazioni, e in quella lezione ho trovato, dette molto meglio che da me, le cose che volevo esprimere, e che da una parte spiegano cosa sia il mestiere dello storico e quale sia la passione che lo anima, e dall’altra, credo si avventurino senza parere anche sulla valutazione dei doveri civili e sociali che ha l’intellettuale - si tenga conto che Merlo, anche se come racconta va per chiese sin da ragazzino; è uno dei maggiori esperti mondiali di storia dell’ordine francescano ed è uno spirito molto libero, è anche certamente e indiscutibilmente di sinistra.

Quindi quel secondo post nasceva idealmente dalla risposta di Andrea.

Il primo post, invece nasceva da più cose.
Un po’ perché mi pareva che del Capocomico, a partire dal post precedente, si stesse parlando anche troppo, e dato che altri, in altre sedi, continuavano a seguirne la tragicomica saga, non mi pareva grave da parte mia abbandonarlo al suo destino.
Poi c’era anche il fatto che appena in politica succede qualcosa, tipo Berlusconi che dice, dopo la morte di Biagi: poverino, mi spiace tanto, ma però non c’è mai stato nessun *mio editto “bulgaro”* per sbatterlo fuori dalla Rai! chi ha un minimo di memoria sobbalza per la sfrontatezza della bugia e inizia a lamentare l’assenza di memoria storica, che come ben spiega Merlo, è una assurdità: se è memoria, non è storia, e viceversa. Poi di solito, a ruota, si citano o il “la storia è maestra di vita” o il “chi non conosce la storia è costretto a riviverla”, dato che alla fine mediaticamente viviamo sempre nella sagra delle banalità.
Dunque, proponevo un altro possibile slogan, secondo me meno datato e più meditativo, dato che la concezione di storia è un bel po’ mutata, dalla classicità ad oggi come spiega anche Merlo, e anche da ieri a oggi, aggiungerei, se si pensi che le prime cattedre universitarie di storia in Italia sono state istituite se non ricordo male a inizio Novecento e di sicuro solo all’interno del corso di laurea di Giurisprudenza, e si occupavano quindi solo di storia delle istituzioni, cioè di quelle strutture che si sono date norme e caratteristiche giuridiche tali da garantirne la sopravvivenza nel tempo, che più o meno è una definizione accettabile: per il medioevo, ad esempio, solo impero e papato, quindi è evidente la limitatezza dell’orizzonte di una simile concezione.
Poi si è passati a fare la storia “evenemenziale”: dei re, dei potenti, dei “fatti” - quella che è stata scardinata, piacciano o no, dagli storici della scuola delle Annales francese, soprattutto la prima generazione: Bloch, probabilmente il maggior storico del Novecento, Febvre etc.
Lo studio della storia è poi stato introdotto tardi nelle scuole pubbliche, e probabilmente questo rende ragione del fatto che essa sia ancora troppo spesso una materia poco conosciuta e della quale, al di là di una serie di luoghi comuni, si faccia fatica a riconoscere la reale natura e il perché è importante.
Prendiamo la visione, dal mio punto di vista assolutamente assurda e superata, che ne dà lazybones nel suo commento: sinceramente, non c’è un saggio storico che abbia letto (ma che però in genere si trova solo nelle librerie molto grandi, e spesso solo in quelle universitarie, anche se non sempre in realtà sono testi fuori dalla portata di lettura di una persona non addetta ai lavori - e questo non perché non siano di interesse per il pubblico, ma perché non hanno pubblico al di là di quello dei cultori, amatoriali e professionali, della materia: così, senza un criterio critico, si leggono nefandezze piene di omissioni e travisamenti comprati al supermercato, e le opere serie restano privilegio di pochi, con gran dolore degli storici veri) nei quali ci siano quei toni trionfalistici e nostalgici di un passato mitico ai quali si accenna nel suo commento.
Piuttosto, si troverà un saggio di storia della mentalità che analizza il fenomeno che, in una particolare contingenza politica e sociale, come è quella nella quale viviamo, ci sia diffusa una visione così distorta della storiografia, e nel quale magari si ipotizza perché questo accada e a chi faccia comodo che accada.
Io di mio ci posso aggiungere una citazione di Carlo Ginzburg, che secondo me casca a fagiolo, perché in fondo c'è una immensa oralità anche in questa società, anche se mascherata da altre cose, dedicata proprio a questi momenti di favoleggiamento sul passato:
"Nelle società fondate sulla tradizione orale, la memoria della comunità tende involontariamente a mascherare e riassorbire i mutamenti. Alla relativa plasticità della vita materiale corrisponde cioè una accentuata immobilità dell’immagine del passato: Le cose sono sempre andate così; il mondo è quello che è. Soltanto nei periodi di acuta trasformazione sociale emerge l’immagine, generalmente mitica, di un passato diverso e migliore - un modello di perfezione, di fronte a cui il presente appare uno scadimento, una degenerazione."

Certo, se uno legge la storia d’Italia di Montanelli, non saprà mai per esempio delle porcherie, attestate inequivocabilmente da ampia documentazione, perpetrate dagli italiani nelle colonie d’Africa, e questo perché Montanelli, non essendo uno storico, era interessato a far passare sempre e comunque l’immagine preconfezionata di: “gli italiani son brava gente”, che i fatti sovente hanno smentito - gli italiani sono buoni e cattivi come lo sono tutti gli altri popoli, e le loro porcherie, anche se non fa piacere sentirlo dire, le hanno fatte come, chi più chi meno, tutti quanti.
Se però lo stesso lettore prende in mano, per dire, la storia d’Italia di Candeloro, molto oggettiva e neutra nella sua minuziosa ricostruzione storica, ha tutta un’altra panoramica dei fatti.
E dal mio punto di vista, già questo da solo giustificherebbe la necessità di una maggior conoscenza storica da parte di tutti. Se la storia fosse conosciuta non solo attraverso l’intermediazione di persone interessate a divulgarla in modo falsato o parziale, nessuno crederebbe a una stronzata storica come la Padania, per esempio, e questo sicuramente avrebbe delle ricadute sia sul presente sia sul futuro; oppure, di fronte ai gonnellini in tartan dei patrioti scozzesi di Braveheart, ci si sarebbe messi a ridere anziché inneggiare all’accuratezza della ricostruzione delle scene di battaglia del film, ben sapendo che il kilt è una invenzione nazionalista, che risale solo al Settecento, e quindi il personaggio storico di William Wallace non lo ha mai indossato. Invece, la creazione di false tradizioni, per alimentare lo spirito nazionalistico, è stata oggetto di studio storico, questo sì, e a chi la voglia affrontare riserva anche alcune inaspettate sorpresine.
In questo senso, sicuramente conoscere un po’ la storia aiuta a muoversi con più sicurezza e meno ingenuità nel presente, e a farsi prendere meno per il naso....
E’ dalle radici che nasce il frutto: io so solo che più conosci il passato, e meglio comprendi il presente.
Il che, ovvio, non consente di divinare il futuro, ma di vivere con maggior consapevolezza, questo sì, e inevitabilmente questo ha ricadute anche su quella che per brevità chiamo “costruzione del futuro”.
Poi lazybones dice: “Intendo che la storia è un bell'alibi per non andare da nessuna parte. E' un bell'alibi per non guardare il futuro con la voglia di affrontarlo creandolo ex novo”.
A parte che detta così, la creazione del futuro pare più un atto divino che umano (ex novo ovvero sine materia, per il momento, crea solo la divinità, per chi ci creda, non certo l’essere umano) ma - orrore, sì! dato che una delle lezioni più potenti, proprio nel senso della forza con la quale ti colpisce, che si ricava dalla storia, è proprio quella che chi viva guardando al passato, chi è incapace di comprendere il presente, e costruisce i propri progetti sulla colpevole e insulsa nostalgia e/o mimesi del passato, è inesorabilmente destinato al fallimento e alla sconfitta. Conoscere davvero la storia significa sapere che non puoi vivere guardando indietro; la storia della storiografia stessa ti insegna quanto il presente influisca sullo studio della storia: se lo storico non fosse profondamente interessato e consapevole del presente, e del futuro da costruire, non farebbe lo storico, perché è dalla necessità di comprendere il presente che nasce il desiderio di studiare il passato. Non è un caso che la maggior parte degli storici sia schierata politicamente, e in alcuni casi anche attivamente: non mi pare che questo sia segnale di cecità nei confronti del presente e della costruzione del futuro, anzi.
Quindi, se come previsto sussulto, è solo nel riscontrare quanto sia radicata una visione superata e antiquata della storiografia, e quanto il permanere di tale visione sia politicamente, concretamente pericoloso per il presente e per il futuro.
Senza poi tener conto che, nei dipartimenti universitari di Storia, è la storia contemporanea quella più seguita e che affascina maggiormente gli studenti, futuri insegnanti o futuri ricercatori. E la storia contemporanea comprende, è vero, lo studio dell’Ottocento e quindi ad esempio la formazione dello Stato unitario Italia nel 1861 (che aiuta a capire molto del panorama politico che si ha oggi, o almeno per me è così), ma arriva sino alla missione italiana in Iraq... e non si può certo dire che è guardare al passato essere consapevoli degli eventi dell’immediato dopo guerra che fanno sì che oggi i nostri soldati siano lì come alleati degli americani, o che giustificano il fatto che l’attuale governo non aveva il potere costituzionale di opporsi alla caserma NATO a Vicenza, caserma sulla quale si è scritto di tutto, in modo strumentale, tranne quello che andava detto, e cioè che non si trattava di discrezionalità di governi, ma che era la NAZIONE Italia ad essere vincolata da un accordo internazionale militare al quale non poteva sottrarsi senza che questo apparisse, almeno formalmente, come un atto di guerra. Anche se so ci sono persone convinte che gli accordi internazionali hanno indiscriminatamente tutti lo stesso valore della carta con la quale ci si pulisce al bagno...

Non mi dilungo ulteriormente, che già sono stata interminabile: mi pare che ciò che volevo dire sia chiarissimo, ma mi pareva, sbagliando, già chiarissimo nei precedenti interventi. Certo, a patto però di leggerlo davvero e capirlo.

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postato da la Parda Flora alle 11:03  

 

21 novembre 2007
Memoria per un Maestro
Intitolo così questo stralcio di lezione/conversazione, che ho trovato edita e messa in rete dagli studenti della Statale di Milano, ma che è zeppa di pensieri e considerazioni che ho spesso sentito esprimere con le mie orecchie da Giovanni Grado Merlo, uno dei maggiori medievisti esistenti oggi in Italia, studioso in particolare di storia della Chiesa, perché so che capirebbe il mio ...gioco di specchi e sorriderebbe.
Posso testimoniare che è davvero, oltre che un insegnante piacevolissimo, un Maestro, nel senso alto che si usava dare un tempo a questa parola.
Con un pizzico di presunzione, mi vanto anche di avere, sotto la citazione di Biamonti che conclude il post, e che invece apre il suo libro su san Francesco, una dedica che fa riferimento sia alle "lezioni" che non finiscono mai, sia al nostro grande affetto reciproco.
Riporto qui questo stralcio (lungo, ma vale la pena di arrivare in fondo, credo, altrimenti non lo proporrei), perchè mi pare che con il suo consueto linguaggio, colloquiale e a volte scanzonato, ma sempre precisissimo, Giovanni Grado Merlo possa chiarire e in parte rispondere, meglio di quanto faccia poveramente io, ciò che era sottinteso nel precedente post, e che perlomeno ad Andrea, pareva interessare.


Professore, come ci si approccia alla storia?

"Noi siamo in una società, noi viviamo in una società superficiale, senza spessore, e, quel che è peggio, ci stiamo sottraendo alla dimensione della memoria. Si sa che vi sono parole o espressioni che vanno di moda. All’interno di queste c’è l’espressione memoria storica.
Cosa vuol dire memoria storica?
Vuol dire che c’è una difficoltà, diciamo pure, epistemologica, ma soprattutto una difficoltà di comprensione. La memoria è il ricordo del passato. Invece la storia è la ricostruzione, ovvero la costruzione di ciò che nel passato è rilevante
. Non di qualsiasi cosa: allo storico non interessa come mangiassero i Greci, se non per capire i rapporti nella società e i rapporti culturali tra gli individui. L’informazione in sé – se i Greci adoperassero le mani, i piedi o le orecchie per mangiare – non ha alcun rilievo storico, è una mera (e rispettabile) curiosità. L’esplorazione storica è la ricerca delle rilevanze e delle connessioni, lo studio dei fenomeni del passato nelle loro dimensioni diacroniche e sincroniche e nelle loro relazioni e interrelazioni. Deve essere chiaro comunque che le rilevanze non sono strettamente “oggettive”, ma sono rilevanze dovute a un contesto o a contesti: a opzioni culturali e a opzioni civili, cioè latamente politiche (poiché riguardano la vita delle collettività e, in esse, dei singoli).
D’altra parte, è rischioso e falsante concepire il lavoro dello storico come mera interpretazione: quello la vede in un modo, quello in un altro. Lo storico non produce lavori a tesi: tesi che si confrontano o si oppongono per vedere se alla fine, magari, si trova un accordo. Il lavoro dello storico ha precisi limiti, che ne condizionano e ne connotano l’attività di ricerca.
Quali sono i limiti, gli steccati, i lacci ineludibili, inevitabili, che ha chi di mestiere fa lo storico?
Essi sono rappresentati dai documenti e dalle fonti: dagli uni e dalle altre non si prescinde perché, in sé, sono qualcosa in più persino dei fatti, perché i fatti (quello che i tedeschi chiamavano ciò che è realmente accaduto) noi sappiamo essere difficili da stabilire. Basta l’esempio classico di un incidente stradale a proposito del quale si facciano parlare quattro testimoni: ognuno dice una cosa un po’ diversa dell’altra. Dei fatti lo storico ha la testimonianza o, meglio, le testimonianze delle fonti e dei documenti. Secondo la visione tradizionale le fonti sono le testimonianze largamente letterarie; i documenti sono degli atti redatti da un notaio o da una cancelleria.
Un tempo si diceva che le fonti fossero la coscienza degli avvenimenti, mentre i documenti la testimonianza dei fatti. Oggi questa visione è un po’ messa in crisi, non perché le fonti non siano la “coscienza” dei documenti, ma perché i documenti stessi non sono la mera registrazione notarile degli avvenimenti, dei fatti. Per questo i più raffinati tra gli storici di professione, prima del contenuto del documento o della fonte analizzano la fonte o il documento in sé, come testimonianza di se stesso.
Questo, da una parte, per evitare di prendere cantonate esegetiche ed euristiche e, dall’altra, per mettere in giusta luce la produzione, la genesi di un documento o di una fonte.
Tutto ciò porta a fare un’altra domanda, almeno per le epoche vicine a noi: ciò che è giunto sino a noi, è giunto casualmente o no? Anche nelle fonti e nei documenti bisogna distinguere attentamente ciò che è programmato per durare nel tempo, ciò che è collocato in posizioni “per durare” nel tempo: per esempio, se un ente monastico o ecclesiastico aveva un patrimonio fondiario, conservava i documenti che attestavano i suoi diritti; se qualcuno si arricchisce in qualche modo e compra uno, tre, cinque, settanta alloggi, i documenti che dimostrano il possesso li conserva gelosamente, perché se il suo inquilino dice “Questo alloggio è mio”, allora si può tirare fuori il documento attestante la proprietà eminente. Non a caso esiste una memoria “individuale”, ma c’è anche una memoria “istituzionale”: i notai conservano una memoria che non è la memoria storica, è la memoria “documentaria”, giuridica. Quindi esistono più memorie: una memoria documentaria”, una memoria “mentale” e una memoria “materiale”.
La memoria mentale è il “racconto”: una modalità di trasmissione e di ricostruzione che andava di moda quando c’era una sinistra un po’ più forte e diversa di adesso, che diceva: “Dobbiamo fare la storia della classe operaia”. Allora si andava dal vecchio militante e gli si chiedeva: “Ehi, compagno, che cosa ti ricordi dello sciopero del 1920?”, “Non ti ricordi che succedeva questo?”, “Ti ricordi che i tuoi compagni dicevano questo e quello?”… e così si faceva la storia “orale” della classe operaia.
Questo per dire di stare attenti, poiché i documenti documentano; ma il meccanismo della produzione testimoniale-documentaria non è lineare e ingenuo, pur essendo di grandissimo interesse e molto più complicato di quel che sembra.
Io che mi sono occupato per tanto tempo dei processi inquisitoriali, mi sono dovuto rendere conto che lì ci sono fatti di mediazione infinita, e, leggerli in modo sprovveduto, è approssimativo e ingannatore. Così ci si avvicina alla ricostruzione storica. Ci si avvicina soprattutto con la voglia di sapere, di conoscere odori, sapori, colori di uomini e donne del passato. Io credo che tutto ciò sia assai difficile da inventare, da trasmettere, perché ognuno ha, ha avuto la sua storia personale, la sua vicenda: dove è nato, cosa ha fatto, quali oggetti aveva con sé oppure che cosa gli piaceva.
Quando avevo quindici-sedici anni, mi venne regalato un motorino. Così, mentre i miei compagni di scuola - con cui avevo fatto il Ginnasio ed avrei fatto il Liceo – in agosto andavano in vacanza, oppure dormivano, oppure bighellonavano sotto le piante, io in pieno agosto prendevo il mio motorino e andavo a cercarmi le chiese di campagna, a tentare di capire che cosa rappresentassero, a vedere come fossero fatti i fossi, a vedere se ci fossero affreschi.
Il rapportarsi col passato ha anche la dimensione che è stata indicato con il termine di privilegio sciamanico. Lo sciamano è diventato di moda qualche anno fa in Italia, in Europa, in America, grazie non solo agli antropologi. Lo sciamano è lo stregone del villaggio, è una figura importante, il mediatore tra i vivi e i morti, tra il mondo al di qua e il mondo al di là. Lo sciamano di solito va in trance e, mentre il suo corpo è in un luogo, egli è da un’altra parte: il suo spirito è un elemento di equilibrio fra l’al di qua e l’al di là, fra vivi e morti.
Similmente lo storico è un mediatore tra i vivi e i morti.

Chi si occupa di storia – salvo che di storia contemporanea, anche se con tutti i morti che ci sono al giorno d’oggi mi sembra che ci si occupi solo di morte – si occupa di coloro che non ci sono più, e mai più ci saranno. Per cui, se uno è un po’ sensibile, tutto ciò dà anche la sensazione di essere un demiurgo, di far rivivere le persone del passato (che così si fa presente).
Il rischio dello storico, dunque, è di fare gli uomini e le donne del passato a propria immagine e somiglianza, vale a dire, di ricostruire il passato secondo i sistemi di pensiero, la visione del mondo, i valori che egli ha. È questo il grande pericolo, alle volte inconscio, cioè non voluto, considerando che lo storico – se non è un freddo e staccato entomologo – vive di passioni, si occupa di uomini e di donne “in carne e ossa” e non può analizzarli come se si mettesse con una telecamera a riprendere un formicaio o un alveare. Deve avere così un’empatia, come un distanziamento dall’oggetto che studia, poiché è chiamato anche a capirlo.
Se io non ho la minima sensibilità al fenomeno religioso, come posso ricostruirlo e riproporlo?
Se a me dei soldi non importa proprio niente, non mi metto a studiare i banchieri fiorentini del Trecento… Per converso, non per questo lo storico deve essere banchiere! Tuttavia deve avere una sensibilità particolare: se a me la musica non piace, non faccio il musicologo; se io non distinguo un “do” da un “re”, meglio che non faccia il musicologo per rispetto degli altri e per rispetto dell’oggetto da conoscere. Quindi, l’avvicinamento, l’approccio alla storia, al passato che si fa storia, è la grande operazione che spetta a chi ha interesse, passione e conoscenza (di tecniche e metodi di indagine).
È necessario distinguere il concetto di passato da quello di storia, perché il passato è passato, cioè cose, fatti, pensieri che sono avvenuti e non avverranno più. Come pensavano i Greci e i Romani, è la differenza che c’è tra res gestae e historia rerum gestarum, cioè tra avvenimenti in quanto tali – ammucchiati nell’armadio o in cantina – e invece chi, quegli oggetti della cantina, riporta alla luce, cerca di spiegarli, cerca di connetterli, e dunque fa storia.
Per l’Occidente tutto è ancora più complicato perché la visione prevalente del mondo, sino a pochi anni fa, era la visione cristiana. La religione cristiana è una religione storica, che pretende di essere storica, perché dice che un evento ha segnato e segna in modo inesorabile, in modo immenso, la vicenda dell’umanità, cioè l’incarnazione di Gesù detto il Cristo: in una cultura millenaria, esiste la certezza di un evento che cambia la destinazione della vicenda umana.
Se questa visione è stata per lungo tempo egemone, si capisce che importanza assuma il passato visto alla luce di una storia finalizzata. Per lungo tempo la historia, nella concezione cristiana, coincideva con la historia salutis, cioè la vicenda umana coincideva con la storia della salvezza.
La historia salutis è indubbiamente da collocarsi in un contesto che oggi non c’è più.
Sappiamo tutti benissimo che cosa è avvenuto nel Novecento. Non si può nascondere che ci sono stati i campi di sterminio, la bomba atomica sui Giapponesi… non si può negare che il Novecento sia stato il secolo più violento della storia dell’umanità. Questo, per esempio, ha messo completamente in crisi il concetto di “progresso”: quello che aveva indirizzato, aveva sospinto l’historia salutis, era diventato “laicamente” la “storia dei progressi inarrestabili dell’umanità”. Oggi, nel bene e nel male, i progressi, per lo più tecnologici, ci sono. Però complessivamente il progresso “positivistico” (tra cui il sogno del comunismo) è morto. Allora, noi ci troviamo davanti a una visione del mondo disillusa. Non abbiamo più illusioni sull’umanità, avendo conosciuto le violenze e le aberrazioni più totali.
Se historia salutis è un problema che lasciamo ai teologi, lo storico di che si occupa?
In primo luogo non si occupa del problema di Dio, non deve capire se Dio esista o non esista; ma, nel suo mestiere, è assolutamente importante che analizzi coloro, le istituzioni, gli individui, gli uomini e le donne che hanno vissuto credendo che Dio esista, non trattandoli come illusi, “alienati”, oppure ritenendoli “tutti magnifici santi”. Allo storico importa capire quale significato abbia avuto per quegli uomini, per quelle donne, per quelle istituzioni, credere in Dio e quale tipo di “qualità religiosa” essi abbiano proposto. Nel mondo degli uomini e delle donne è possibile distinguere la qualità nelle esperienze intellettuali e spirituali. Nelle esperienze religiose c’è un’articolazione di “qualità”, come c’è nelle esperienze musicali, nell’uso del computer. Ecco, lo storico contemporaneo, cioè noi che ci occupiamo del passato, deve capire quella “qualità”.
Prima di dare la parola ai presenti, volevo leggere un testo di eminente valore simbolico, un testo che è di Davide Van De Sfroos, uno che si presenta come musicista e cantante, ma che in verità è un notevole letterato e poeta. Il mio volume, Nel nome di san Francesco, finisce con una citazione da una canzonetta/poesia intitolata Pulenta e galena fregia Polenta e gallina fredda), che qui riportiamo in traduzione italiana dal dialetto del lago di Como:

«... e la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria.
Sulla balaustra anche il ragno richiama il quadro della sua storia.
La ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva;
ma tante volte ha troppi buchi ed è tutta da rammendare.
La finestra sbatte le ali, ma sa che non può volare,
e le stelle hanno la faccia lucida come gli occhi della nostalgia.
In questa stanza senza nessuno guardo lontano e mi vedo in faccia.
In questa stanza di un altro tempo i miei fantasmi lasciano la traccia».


A questo punto si potrebbe dire: “ma che cosa c’entra questo con la storia”? C’entra! Questo testo non è altro che un trattato sottile, intelligente, politico, di storia, che dà molte indicazioni in grado di sollecitare il cervello e la fantasia di chi legge e ascolta.
Innanzitutto, la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria: questo vuol dire che la vita, anche la ricerca, non sta mai ferma, perché nel momento in cui la ricerca è ferma, è morta. Poi c’è la consapevolezza che le acquisizioni hanno dei precisi limiti strutturali (il ragno che ricama il quadro della sua storia e la ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva): alla fine ci si accorge – ed è una consapevolezza esplosiva – che anche la miglior ricerca che abbiamo fatto, è ancora piena di buchi o perché le fonti non ci danno filo o perché non siamo riusciti a tesserlo. La consapevolezza di quello che abbiamo prodotto è che si tratta di qualcosa di ineluttabilmente superabile, anzi, necessariamente superabile: se fosse insuperabile, vorrebbe dire che non esiste più la ricerca storica.
Secondo certi principi scientifici, le discipline cosiddette sperimentali sanno già che a determinate condizioni avviene una certa cosa.
Noi storici, invece, non possiamo mai riprodurre le stesse condizioni né possiamo esser certi che avverrà la stessa cosa, perché la vita non sta mai ferma, ed è la condizione della nostra libertà. (il che è anche il motivo per il quale la vecchia "storia maestra di vita" non ha più seguito, come dicevo...nota della Parda) Se non fosse così, la nostra vita sarebbe finita. Se ci fosse la certezza della previsione – come c’è quando io costruisco una serie di ingranaggi – la vita non varrebbe più la pena di essere vissuta: mentre è volontaristicamente certo che la vita vale la pena di essere vissuta!
La seconda strofa è dedicata alla condizione dello storico e dell’intellettuale: l’intellettuale e lo storico sbattono le ali, ma sanno di non poter volare (tanti intellettuali e storici cercano di volare attraverso i mezzi di comunicazione di massa, attraverso la loro vana gloria, attraverso la violenza e la supponenza che ancor più tragicamente non consentono di volare verso l’alto).
Nel nostro lavoro c’è anche questa dimensione di melanconia perché, comunque, si ha la consapevolezza che il tempo non tornerà mai più: è quello che gli esistenzialisti dicevano l’inesorabile passare del tempo.
C’è infine la dimensione solitaria
. Mi chiedo: perché io insegno volentieri? Risponderei: per interrompere la solitudine.
Il mio mestiere, se fatto bene, comporta un sacco di ore di solitudine (per questo, tra l’altro, sono grato ai musicisti che mi tengono compagnia con la loro musica). Si è soli a lavorare. Per cui quando possiamo incontrare gli altri, vivere in mezzo agli altri, dà una gioia infinita la possibilità di comunicare i risultati della nostra ricerca. E poi ogni storico, come ogni persona più o meno sana, nei momenti di solitudine ha i suoi fantasmi, quei fantasmi che prendono corpo quando si sente la responsabilità di quello che si scrive (e si dice) . Si deve esser ben certi di quello che si è scritto, si deve esser preoccupati che gli altri capiscano i procedimenti messi in atto: per un senso di democrazia autentica, di rispetto per gli altri.
Si può scrivere anche “difficile”. Ci sono procedimenti che necessitano di un linguaggio che inevitabilmente non è il linguaggio quotidiano; ma questo senso di responsabilità morale, anche se la parola oggi sembra spaventi, vuol dire che non si scrive per se stessi. Il libro, i libri sono fatti affinché gli altri li leggano: questa è la responsabilità.
Se metto in mano una bomba a una persona e gli dico di “portarla, per piacere, a mia zia”, non posso dirgli: “guarda che hai un vassoio di dolcetti”. Devo dirgli: “questa è una bomba”.
Anche nel lavoro dello storico ci sono argomenti che sono “dolcetti” e argomenti che sono “bombe”, che vanno maneggiati con cautela.
Una volta, quando c’erano le classi definite, quando c’era la società aristocratica eccetera, all’epoca della mia gioventù, usciva un libro di storia: lo leggevano in quattro e diveniva patrimonio di un ambiente. Oggi, invece, esce un libro, lo leggono in quattrocento, ma nessuno sa che cosa sia e quale valore abbia (a parte quelli che non leggono niente, perché tanto hanno altro da fare). Eppure non rinunciamo a scrivere e continuiamo a credere che a qualcosa servirà. E cerchiamo di scriverlo con cura. La cura della scrittura appartiene a un modo di fare il mestiere dello storico, che ha l’esigenza di farsi capire e di rispettare chi leggerà. Poi, naturalmente, qualcuno dice o dirà: “questo imbecille che cosa scrive?”. Magari lo dirà fra due secoli. Quando leggeranno i miei testi, forse si dirà: “Ma c’era un erudito di Pinerolo che ha fatto un libro pieno di fraintendimenti esegetici ed euristici!”. Il rischio c’è, soprattutto se uno ha il piacere di ricercare e di scrivere.
Per concludere, vi devo leggere un altro piccolo brano di uno scrittore italiano contemporaneo, Francesco Biamonti, morto quattro anni fa. Lo traggo da un suo libro che si intitola Attesa sul mare:
«Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno» .
Il brano esprime una metafora su cui non vi trattengo, ma che la lascio alla vostra riflessione. Io estraggo una specie di slogan personale: non voglio convincere nessuno. Per cui se voi invece adesso avete intenzione di convincere me, ne sarei felicissimo. Se volete farmi domande, cercherò di rispondervi.

Maggio 2005

(Di Van de Sfroos, che anch'io ascolto con piacere, anche perché i miei antenati erano "Laghée", scelgo invece un altra canzone, L'omm de la tempesta, e la metto qui)

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20 novembre 2007
Altri Angeli
Leggo sovente citata, soprattutto in questi ultimi tempi, la vecchia affermazione di Cicerone che sostiene essere la Storia una maestra di vita. Non sono d’accordo, come non lo sono in genere gli storici; certo, la storia insegna delle cose, come ad esempio quale sia la sua differenza dalla memoria, parte dell’intelletto del singolo o del sentire di una collettività, e quindi filtrata e per definizione parziale. Talché, la spesso usata formula “memoria storica” così di moda è in realtà un pericoloso ossimoro, che insidiosamente ribadisce proprio il pericolo che vorrebbe stigmatizzare: la memoria, personale e psicologicamente influenzabile, può giustificatamente ammettere vuoti e distorsioni - la storia no. Il suo obiettivo, benché fallibile in quanto perseguito da esseri fallibili, è l’esatto opposto, pure nell’umile consapevolezza, come credo di aver già detto in altre occasioni, che esso è transeunte e destinato ad una auspicabile più o meno rapida obsolescenza, per la scoperta di nuove fonti, o di un nuovo modo di leggerle. La storia è un po’ come la tela di Penelope, si fa e si disfa, nel tentativo di raggiungere e comprendere eventi e soprattutto persone, per progressive approssimazioni, con il loro sentire, il loro modo di interpretare e giudicare la realtà loro contemporanea, i poteri coi quali facevano quotidianamente i conti, persino il clima e il paesaggio che li circondava - tutte cose lontanissime da noi e rispetto alle quali troppo spesso i detriti che hanno lasciato dietro di sé, gli unici testimoni per noi raggiungibili, sono troppo frammentari e parziali per consentire di ricostruire tutti i fili che formano l’ordito del disegno che cerchiamo di intuire.
Così, personalmente, a Cicerone preferisco la forse meno nota riflessione di Walter Benjamin, nel sua “Tesi di filosofia della storia” in “Angelus novus. Saggi e frammenti.”
Nulla di ciò che si è verificato va perduto per la storia (...) ma solo all’umanità redenta, tocca interamente il suo passato”, laddove, lo storico Carlo Ginzburg, proponeva di interpretare l’aggettivo “redenta” come - liberata.
Mi pare la citazione sia sufficientemente eloquente per commentarsi da sé.

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18 novembre 2007
Errori di referente?
"Ci sono senatori - ha accusato ancora Berlusconi - che hanno subito intimidazioni" e il governo poi ha fatto "una pioggia di regali, più di un miliardo di euro a spese dei cittadini".
La Repubblica 16 novembre 2007

Da cittadina che con le sue tasse ha contribuito alla formazione di quel miliardo di euro, mi sorge spontanea solo una domanda: se il signor (chiamarlo onorevole, non so perché, ma è più forte di me, mi dà conati di vomito, quindi sono costretta ad evitare) Silvio Belusconi ha prove reali di ciò che placidamente afferma, (e non si tratta solo della sua solita disinvolta parlantina a ruota libera, che se avete un minimo di buona memoria, più di una volta lo ha già messo in imbarazzo e costretto a rimangiarsi affermazioni simili, cosa che pare a lui non faccia un baffo, mentre io ci creperei dalla vergogna, ma ..."tiremm innanz", come diceva un altro milanese, Amatore Sciesa, che secondo me aveva anche un concetto dell'onore un po' diverso da quello del Brianzolo in questione), se dicevo costui può provare questa sua affermazione giuridicamente piuttosto grave, fra l'altro, perché ca...spita queste cose, invece che a un giornalista di Repubblica, non le dice a chi di dovere, corredandole una volta tanto anche delle testimonianze, o ricevute fiscali
:D
o quell'accidente di prova che deve essere in suo possesso per consentirgli di lanciare allegramente dalle pagine di un quotidiano accuse così pesanti?


Io un'ipotesi ce l'avrei (vedi alla voce: fanfaluche di una faccia di tolla) ma credo nella democrazia, e quindi lascio a ciascuno trarre liberamente, ma lucidamente, per favore, le sue conclusioni. Perché se la lucidità e razionalità di giudizio e la buona fede mancano, allora sono costretta a cominciare a pensare che dare il voto a tutti, compresi gli idioti e i lazzaroni, forse non sia questa gran conquista sociale e civile.


(e mi scusi Capitan Jack Sparrow, onesto pirata d'altri tempi, ma ormai per me l'unica colonna sonora possibile per certe situazioni è questa: Lui, é un pirata!)

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