21 novembre 2007 |
Memoria per un Maestro |
Intitolo così questo stralcio di lezione/conversazione, che ho trovato edita e messa in rete dagli studenti della Statale di Milano, ma che è zeppa di pensieri e considerazioni che ho spesso sentito esprimere con le mie orecchie da Giovanni Grado Merlo, uno dei maggiori medievisti esistenti oggi in Italia, studioso in particolare di storia della Chiesa, perché so che capirebbe il mio ...gioco di specchi e sorriderebbe. Posso testimoniare che è davvero, oltre che un insegnante piacevolissimo, un Maestro, nel senso alto che si usava dare un tempo a questa parola. Con un pizzico di presunzione, mi vanto anche di avere, sotto la citazione di Biamonti che conclude il post, e che invece apre il suo libro su san Francesco, una dedica che fa riferimento sia alle "lezioni" che non finiscono mai, sia al nostro grande affetto reciproco. Riporto qui questo stralcio (lungo, ma vale la pena di arrivare in fondo, credo, altrimenti non lo proporrei), perchè mi pare che con il suo consueto linguaggio, colloquiale e a volte scanzonato, ma sempre precisissimo, Giovanni Grado Merlo possa chiarire e in parte rispondere, meglio di quanto faccia poveramente io, ciò che era sottinteso nel precedente post, e che perlomeno ad Andrea, pareva interessare.
Professore, come ci si approccia alla storia?
"Noi siamo in una società, noi viviamo in una società superficiale, senza spessore, e, quel che è peggio, ci stiamo sottraendo alla dimensione della memoria. Si sa che vi sono parole o espressioni che vanno di moda. All’interno di queste c’è l’espressione memoria storica. Cosa vuol dire memoria storica? Vuol dire che c’è una difficoltà, diciamo pure, epistemologica, ma soprattutto una difficoltà di comprensione. La memoria è il ricordo del passato. Invece la storia è la ricostruzione, ovvero la costruzione di ciò che nel passato è rilevante. Non di qualsiasi cosa: allo storico non interessa come mangiassero i Greci, se non per capire i rapporti nella società e i rapporti culturali tra gli individui. L’informazione in sé – se i Greci adoperassero le mani, i piedi o le orecchie per mangiare – non ha alcun rilievo storico, è una mera (e rispettabile) curiosità. L’esplorazione storica è la ricerca delle rilevanze e delle connessioni, lo studio dei fenomeni del passato nelle loro dimensioni diacroniche e sincroniche e nelle loro relazioni e interrelazioni. Deve essere chiaro comunque che le rilevanze non sono strettamente “oggettive”, ma sono rilevanze dovute a un contesto o a contesti: a opzioni culturali e a opzioni civili, cioè latamente politiche (poiché riguardano la vita delle collettività e, in esse, dei singoli). D’altra parte, è rischioso e falsante concepire il lavoro dello storico come mera interpretazione: quello la vede in un modo, quello in un altro. Lo storico non produce lavori a tesi: tesi che si confrontano o si oppongono per vedere se alla fine, magari, si trova un accordo. Il lavoro dello storico ha precisi limiti, che ne condizionano e ne connotano l’attività di ricerca. Quali sono i limiti, gli steccati, i lacci ineludibili, inevitabili, che ha chi di mestiere fa lo storico? Essi sono rappresentati dai documenti e dalle fonti: dagli uni e dalle altre non si prescinde perché, in sé, sono qualcosa in più persino dei fatti, perché i fatti (quello che i tedeschi chiamavano ciò che è realmente accaduto) noi sappiamo essere difficili da stabilire. Basta l’esempio classico di un incidente stradale a proposito del quale si facciano parlare quattro testimoni: ognuno dice una cosa un po’ diversa dell’altra. Dei fatti lo storico ha la testimonianza o, meglio, le testimonianze delle fonti e dei documenti. Secondo la visione tradizionale le fonti sono le testimonianze largamente letterarie; i documenti sono degli atti redatti da un notaio o da una cancelleria. Un tempo si diceva che le fonti fossero la coscienza degli avvenimenti, mentre i documenti la testimonianza dei fatti. Oggi questa visione è un po’ messa in crisi, non perché le fonti non siano la “coscienza” dei documenti, ma perché i documenti stessi non sono la mera registrazione notarile degli avvenimenti, dei fatti. Per questo i più raffinati tra gli storici di professione, prima del contenuto del documento o della fonte analizzano la fonte o il documento in sé, come testimonianza di se stesso. Questo, da una parte, per evitare di prendere cantonate esegetiche ed euristiche e, dall’altra, per mettere in giusta luce la produzione, la genesi di un documento o di una fonte. Tutto ciò porta a fare un’altra domanda, almeno per le epoche vicine a noi: ciò che è giunto sino a noi, è giunto casualmente o no? Anche nelle fonti e nei documenti bisogna distinguere attentamente ciò che è programmato per durare nel tempo, ciò che è collocato in posizioni “per durare” nel tempo: per esempio, se un ente monastico o ecclesiastico aveva un patrimonio fondiario, conservava i documenti che attestavano i suoi diritti; se qualcuno si arricchisce in qualche modo e compra uno, tre, cinque, settanta alloggi, i documenti che dimostrano il possesso li conserva gelosamente, perché se il suo inquilino dice “Questo alloggio è mio”, allora si può tirare fuori il documento attestante la proprietà eminente. Non a caso esiste una memoria “individuale”, ma c’è anche una memoria “istituzionale”: i notai conservano una memoria che non è la memoria storica, è la memoria “documentaria”, giuridica. Quindi esistono più memorie: una memoria documentaria”, una memoria “mentale” e una memoria “materiale”. La memoria mentale è il “racconto”: una modalità di trasmissione e di ricostruzione che andava di moda quando c’era una sinistra un po’ più forte e diversa di adesso, che diceva: “Dobbiamo fare la storia della classe operaia”. Allora si andava dal vecchio militante e gli si chiedeva: “Ehi, compagno, che cosa ti ricordi dello sciopero del 1920?”, “Non ti ricordi che succedeva questo?”, “Ti ricordi che i tuoi compagni dicevano questo e quello?”… e così si faceva la storia “orale” della classe operaia. Questo per dire di stare attenti, poiché i documenti documentano; ma il meccanismo della produzione testimoniale-documentaria non è lineare e ingenuo, pur essendo di grandissimo interesse e molto più complicato di quel che sembra. Io che mi sono occupato per tanto tempo dei processi inquisitoriali, mi sono dovuto rendere conto che lì ci sono fatti di mediazione infinita, e, leggerli in modo sprovveduto, è approssimativo e ingannatore. Così ci si avvicina alla ricostruzione storica. Ci si avvicina soprattutto con la voglia di sapere, di conoscere odori, sapori, colori di uomini e donne del passato. Io credo che tutto ciò sia assai difficile da inventare, da trasmettere, perché ognuno ha, ha avuto la sua storia personale, la sua vicenda: dove è nato, cosa ha fatto, quali oggetti aveva con sé oppure che cosa gli piaceva. Quando avevo quindici-sedici anni, mi venne regalato un motorino. Così, mentre i miei compagni di scuola - con cui avevo fatto il Ginnasio ed avrei fatto il Liceo – in agosto andavano in vacanza, oppure dormivano, oppure bighellonavano sotto le piante, io in pieno agosto prendevo il mio motorino e andavo a cercarmi le chiese di campagna, a tentare di capire che cosa rappresentassero, a vedere come fossero fatti i fossi, a vedere se ci fossero affreschi. Il rapportarsi col passato ha anche la dimensione che è stata indicato con il termine di privilegio sciamanico. Lo sciamano è diventato di moda qualche anno fa in Italia, in Europa, in America, grazie non solo agli antropologi. Lo sciamano è lo stregone del villaggio, è una figura importante, il mediatore tra i vivi e i morti, tra il mondo al di qua e il mondo al di là. Lo sciamano di solito va in trance e, mentre il suo corpo è in un luogo, egli è da un’altra parte: il suo spirito è un elemento di equilibrio fra l’al di qua e l’al di là, fra vivi e morti. Similmente lo storico è un mediatore tra i vivi e i morti. Chi si occupa di storia – salvo che di storia contemporanea, anche se con tutti i morti che ci sono al giorno d’oggi mi sembra che ci si occupi solo di morte – si occupa di coloro che non ci sono più, e mai più ci saranno. Per cui, se uno è un po’ sensibile, tutto ciò dà anche la sensazione di essere un demiurgo, di far rivivere le persone del passato (che così si fa presente). Il rischio dello storico, dunque, è di fare gli uomini e le donne del passato a propria immagine e somiglianza, vale a dire, di ricostruire il passato secondo i sistemi di pensiero, la visione del mondo, i valori che egli ha. È questo il grande pericolo, alle volte inconscio, cioè non voluto, considerando che lo storico – se non è un freddo e staccato entomologo – vive di passioni, si occupa di uomini e di donne “in carne e ossa” e non può analizzarli come se si mettesse con una telecamera a riprendere un formicaio o un alveare. Deve avere così un’empatia, come un distanziamento dall’oggetto che studia, poiché è chiamato anche a capirlo. Se io non ho la minima sensibilità al fenomeno religioso, come posso ricostruirlo e riproporlo? Se a me dei soldi non importa proprio niente, non mi metto a studiare i banchieri fiorentini del Trecento… Per converso, non per questo lo storico deve essere banchiere! Tuttavia deve avere una sensibilità particolare: se a me la musica non piace, non faccio il musicologo; se io non distinguo un “do” da un “re”, meglio che non faccia il musicologo per rispetto degli altri e per rispetto dell’oggetto da conoscere. Quindi, l’avvicinamento, l’approccio alla storia, al passato che si fa storia, è la grande operazione che spetta a chi ha interesse, passione e conoscenza (di tecniche e metodi di indagine). È necessario distinguere il concetto di passato da quello di storia, perché il passato è passato, cioè cose, fatti, pensieri che sono avvenuti e non avverranno più. Come pensavano i Greci e i Romani, è la differenza che c’è tra res gestae e historia rerum gestarum, cioè tra avvenimenti in quanto tali – ammucchiati nell’armadio o in cantina – e invece chi, quegli oggetti della cantina, riporta alla luce, cerca di spiegarli, cerca di connetterli, e dunque fa storia. Per l’Occidente tutto è ancora più complicato perché la visione prevalente del mondo, sino a pochi anni fa, era la visione cristiana. La religione cristiana è una religione storica, che pretende di essere storica, perché dice che un evento ha segnato e segna in modo inesorabile, in modo immenso, la vicenda dell’umanità, cioè l’incarnazione di Gesù detto il Cristo: in una cultura millenaria, esiste la certezza di un evento che cambia la destinazione della vicenda umana. Se questa visione è stata per lungo tempo egemone, si capisce che importanza assuma il passato visto alla luce di una storia finalizzata. Per lungo tempo la historia, nella concezione cristiana, coincideva con la historia salutis, cioè la vicenda umana coincideva con la storia della salvezza. La historia salutis è indubbiamente da collocarsi in un contesto che oggi non c’è più. Sappiamo tutti benissimo che cosa è avvenuto nel Novecento. Non si può nascondere che ci sono stati i campi di sterminio, la bomba atomica sui Giapponesi… non si può negare che il Novecento sia stato il secolo più violento della storia dell’umanità. Questo, per esempio, ha messo completamente in crisi il concetto di “progresso”: quello che aveva indirizzato, aveva sospinto l’historia salutis, era diventato “laicamente” la “storia dei progressi inarrestabili dell’umanità”. Oggi, nel bene e nel male, i progressi, per lo più tecnologici, ci sono. Però complessivamente il progresso “positivistico” (tra cui il sogno del comunismo) è morto. Allora, noi ci troviamo davanti a una visione del mondo disillusa. Non abbiamo più illusioni sull’umanità, avendo conosciuto le violenze e le aberrazioni più totali. Se historia salutis è un problema che lasciamo ai teologi, lo storico di che si occupa? In primo luogo non si occupa del problema di Dio, non deve capire se Dio esista o non esista; ma, nel suo mestiere, è assolutamente importante che analizzi coloro, le istituzioni, gli individui, gli uomini e le donne che hanno vissuto credendo che Dio esista, non trattandoli come illusi, “alienati”, oppure ritenendoli “tutti magnifici santi”. Allo storico importa capire quale significato abbia avuto per quegli uomini, per quelle donne, per quelle istituzioni, credere in Dio e quale tipo di “qualità religiosa” essi abbiano proposto. Nel mondo degli uomini e delle donne è possibile distinguere la qualità nelle esperienze intellettuali e spirituali. Nelle esperienze religiose c’è un’articolazione di “qualità”, come c’è nelle esperienze musicali, nell’uso del computer. Ecco, lo storico contemporaneo, cioè noi che ci occupiamo del passato, deve capire quella “qualità”. Prima di dare la parola ai presenti, volevo leggere un testo di eminente valore simbolico, un testo che è di Davide Van De Sfroos, uno che si presenta come musicista e cantante, ma che in verità è un notevole letterato e poeta. Il mio volume, Nel nome di san Francesco, finisce con una citazione da una canzonetta/poesia intitolata Pulenta e galena fregia Polenta e gallina fredda), che qui riportiamo in traduzione italiana dal dialetto del lago di Como:
«... e la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria. Sulla balaustra anche il ragno richiama il quadro della sua storia. La ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva; ma tante volte ha troppi buchi ed è tutta da rammendare. La finestra sbatte le ali, ma sa che non può volare, e le stelle hanno la faccia lucida come gli occhi della nostalgia. In questa stanza senza nessuno guardo lontano e mi vedo in faccia. In questa stanza di un altro tempo i miei fantasmi lasciano la traccia».
A questo punto si potrebbe dire: “ma che cosa c’entra questo con la storia”? C’entra! Questo testo non è altro che un trattato sottile, intelligente, politico, di storia, che dà molte indicazioni in grado di sollecitare il cervello e la fantasia di chi legge e ascolta. Innanzitutto, la candela non sta mai ferma e si muove come la memoria: questo vuol dire che la vita, anche la ricerca, non sta mai ferma, perché nel momento in cui la ricerca è ferma, è morta. Poi c’è la consapevolezza che le acquisizioni hanno dei precisi limiti strutturali (il ragno che ricama il quadro della sua storia e la ragnatela dei miei pensieri prende tutto quel che arriva): alla fine ci si accorge – ed è una consapevolezza esplosiva – che anche la miglior ricerca che abbiamo fatto, è ancora piena di buchi o perché le fonti non ci danno filo o perché non siamo riusciti a tesserlo. La consapevolezza di quello che abbiamo prodotto è che si tratta di qualcosa di ineluttabilmente superabile, anzi, necessariamente superabile: se fosse insuperabile, vorrebbe dire che non esiste più la ricerca storica. Secondo certi principi scientifici, le discipline cosiddette sperimentali sanno già che a determinate condizioni avviene una certa cosa. Noi storici, invece, non possiamo mai riprodurre le stesse condizioni né possiamo esser certi che avverrà la stessa cosa, perché la vita non sta mai ferma, ed è la condizione della nostra libertà. (il che è anche il motivo per il quale la vecchia "storia maestra di vita" non ha più seguito, come dicevo...nota della Parda) Se non fosse così, la nostra vita sarebbe finita. Se ci fosse la certezza della previsione – come c’è quando io costruisco una serie di ingranaggi – la vita non varrebbe più la pena di essere vissuta: mentre è volontaristicamente certo che la vita vale la pena di essere vissuta! La seconda strofa è dedicata alla condizione dello storico e dell’intellettuale: l’intellettuale e lo storico sbattono le ali, ma sanno di non poter volare (tanti intellettuali e storici cercano di volare attraverso i mezzi di comunicazione di massa, attraverso la loro vana gloria, attraverso la violenza e la supponenza che ancor più tragicamente non consentono di volare verso l’alto). Nel nostro lavoro c’è anche questa dimensione di melanconia perché, comunque, si ha la consapevolezza che il tempo non tornerà mai più: è quello che gli esistenzialisti dicevano l’inesorabile passare del tempo. C’è infine la dimensione solitaria. Mi chiedo: perché io insegno volentieri? Risponderei: per interrompere la solitudine. Il mio mestiere, se fatto bene, comporta un sacco di ore di solitudine (per questo, tra l’altro, sono grato ai musicisti che mi tengono compagnia con la loro musica). Si è soli a lavorare. Per cui quando possiamo incontrare gli altri, vivere in mezzo agli altri, dà una gioia infinita la possibilità di comunicare i risultati della nostra ricerca. E poi ogni storico, come ogni persona più o meno sana, nei momenti di solitudine ha i suoi fantasmi, quei fantasmi che prendono corpo quando si sente la responsabilità di quello che si scrive (e si dice) . Si deve esser ben certi di quello che si è scritto, si deve esser preoccupati che gli altri capiscano i procedimenti messi in atto: per un senso di democrazia autentica, di rispetto per gli altri. Si può scrivere anche “difficile”. Ci sono procedimenti che necessitano di un linguaggio che inevitabilmente non è il linguaggio quotidiano; ma questo senso di responsabilità morale, anche se la parola oggi sembra spaventi, vuol dire che non si scrive per se stessi. Il libro, i libri sono fatti affinché gli altri li leggano: questa è la responsabilità. Se metto in mano una bomba a una persona e gli dico di “portarla, per piacere, a mia zia”, non posso dirgli: “guarda che hai un vassoio di dolcetti”. Devo dirgli: “questa è una bomba”. Anche nel lavoro dello storico ci sono argomenti che sono “dolcetti” e argomenti che sono “bombe”, che vanno maneggiati con cautela. Una volta, quando c’erano le classi definite, quando c’era la società aristocratica eccetera, all’epoca della mia gioventù, usciva un libro di storia: lo leggevano in quattro e diveniva patrimonio di un ambiente. Oggi, invece, esce un libro, lo leggono in quattrocento, ma nessuno sa che cosa sia e quale valore abbia (a parte quelli che non leggono niente, perché tanto hanno altro da fare). Eppure non rinunciamo a scrivere e continuiamo a credere che a qualcosa servirà. E cerchiamo di scriverlo con cura. La cura della scrittura appartiene a un modo di fare il mestiere dello storico, che ha l’esigenza di farsi capire e di rispettare chi leggerà. Poi, naturalmente, qualcuno dice o dirà: “questo imbecille che cosa scrive?”. Magari lo dirà fra due secoli. Quando leggeranno i miei testi, forse si dirà: “Ma c’era un erudito di Pinerolo che ha fatto un libro pieno di fraintendimenti esegetici ed euristici!”. Il rischio c’è, soprattutto se uno ha il piacere di ricercare e di scrivere. Per concludere, vi devo leggere un altro piccolo brano di uno scrittore italiano contemporaneo, Francesco Biamonti, morto quattro anni fa. Lo traggo da un suo libro che si intitola Attesa sul mare: «Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno» . Il brano esprime una metafora su cui non vi trattengo, ma che la lascio alla vostra riflessione. Io estraggo una specie di slogan personale: non voglio convincere nessuno. Per cui se voi invece adesso avete intenzione di convincere me, ne sarei felicissimo. Se volete farmi domande, cercherò di rispondervi.
Maggio 2005
(Di Van de Sfroos, che anch'io ascolto con piacere, anche perché i miei antenati erano "Laghée", scelgo invece un altra canzone, L'omm de la tempesta, e la metto qui)Etichette: storia |
postato da la Parda Flora
alle 10:00
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