02 novembre 2007 |
The Bourne Ultimatum |
Allora, cominciamo col chiarire alcuni dati essenziali: Jason Bourne/David Webb è, nel ciclo di romanzi di Ludlum a lui dedicati, un quieto professore universitario orientalista che si trova, suo malgrado, invischiato nel pasticcio del coinvolgimento americano nella guerra indocinese, nel senso che ci rimette, ammazzati, moglie e figli. Da qui la sua determinazione ampiamente autodistruttiva (e distruttiva anche per chi si trovi sulla sua strada), che lo porterà a far parte, dopo un addestramento ben al limite della resistenza psichica, del famigerato progetto Treadstone o Medusa (se la cosa vi pare solo un’ucronia, provate a inserire in un motore di ricerca il “Progetto MKULTRA” della Cia). Jason Bourne narrativamente nasce quindi come un miliziano super addestrato ad azioni di guerriglia estreme e suicide in territorio ostile, con un salto temporale, rispetto ai film, di circa quarant’anni. La sua ambientazione originaria è perciò quella della Guerra Fredda, e la trama dei romanzi obbedisce a quelle logiche, la cui nascita è stato di recente raccontata in modo più o meno fedele in The good shepard. Bourne non è neppure lo Sciacallo, o Carlos, dei romanzi di Ludlum. Sciacallo che in realtà è invece il suo alter ego cattivo, abilissimo e imprendibile assassino prezzolato al soldo di chi paghi di più, alla testa di una pericolosa organizzazione mondiale di killer potenzialmente destabilizzante per gli equilibri della economia e quindi politica internazionale. E’ vero, nel romanzo Jason e una campagna d’informazione ben orchestrata, fanno apparire Carlos sotto le mentite spoglie di Jason, un po’ ovunque, attribuendogli qualsiasi mirabolante omicidio compiuto, soprattutto in Oriente, nel tentativo di fare uscire il killer Carlos allo scoperto per poterlo eliminare; tuttavia, non si capisce ugualmente perché fare così disonestamente l’occhiolino al romanzo di Ludlum sottotitolando in italiano questo ultimo Bourne: il ritorno dello Sciacallo - sono quindi giustificate eventuali perplessità del pubblico al riguardo, visto che nel film di questo benedetto canide non si vede traccia. In compenso, a parte la mancata epifania del misterioso Sciacallo, in Ultimatum succede praticamente di tutto, in un film dal ritmo forsennato, che dire che non lascia rifiatare è banale, oltre che riduttivo: con una regia dal dinamismo spinto all’estremo (il segreto di Greengrass pare stare nell’uso intensivo della hand-cam) e un montaggio al fulmicotone, sarebbe più esatto dire che potrebbe dare qualche problema ad eventuali spettatori sofferenti di kinetosi. Non mancano infatti anche in quest’ultimo episodio della saga, le convulse scene di combattimento a mani nude, credibili ed efficacissime, che tanto avevo apprezzato, per il loro realismo, nel precedente episodio, anche se l’inseguimento per le vie e viuzze di Parigi, con la macchinetta di Marie, in Identity, aveva una marcia in più, rispetto ai molti inseguimenti da crash test che si susseguono in Ultimatum, nella miglior tradizione del genere, compreso l’uscirne sempre miracolosamente illeso o quasi, di Jason. Si corona così, in questo terzo episodio, l’apoteosi in quest'ultimo film un po’ troppo superomistica di un personaggio che è stato trasformato, per oscure trame di potere (che sono e restano il punto misterioso e veramente intrigante di tutta la vicenda: con una Cia così infiltrata, deviata e corrotta, vien da chiedersi se davvero dietro l’11 settembre e la guerra in Iraq sia molto più ciò che ignoriamo, ma possiamo facilmente sospettare, di quel che mai sapremo) in una perfetta macchina per uccidere. La scelta della sceneggiatura di Tony Gilroy e della regia di Paul Greengrass, subentrato con Supremacy a Doug Liman, sono piuttosto evidenti: attualizzare la vicenda e le tematiche che essa solleva, spostando gli avvenimenti a dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, che hanno rappresentato una svolta decisiva nella storia dei vari servizi segreti, all’improvviso privati di un nemico ben definito e riconoscibile, e pur mantenendo la cinepresa esterna rispetto all’azione, scegliere anche visivamente il punto di vista soggettivo di Jason, con il quale dobbiamo fare il neppure troppo grande sforzo d’identificarci. Posso assicurare che le scene d’azione possono apparire colpevolmente “illeggibili” solo a chi le vorrebbe immobili: per chi le viva, appaiono proprio come il regista ha scelto di girarle, tanto che sarei curiosa di conoscere il vero curriculum di chi ha preparato attori e stuntmen a interpretarle. E tenuto conto della prosa decisamente arzigogolata e spesso meccanica di Ludlum, a fronte di una limpidezza d’azione che si srotola piuttosto piana - pur nell’apparente caos di chi per sopravvivere si deva muovere sempre un passo avanti, anche senza sapere rispetto a chi né perché - mantenendo al contempo il mistero che aleggia attorno all’amnesia di Jason, tema che domina fortemente soprattutto il primo episodio della trilogia, stupisce e francamente un po’ irrita leggere quegli spettatori e critici che, a fronte di una pretesa maggior chiarezza (?!) della narrazione di Ludlum, (peccato solo che racconti un’altra storia) al quale sarebbe forse più giusto dire che il Bourne cinematografico si limita ad ispirarsi, trovando rapidamente una propria vitalità indipendente dai libri, hanno giudicato noioso il plot e confusa la regia. Per una volta che la scelta di regia e montaggio è quella di mettere lo spettatore al centro di un azione vera, sporca e cattiva, e non patinata e fasulla alla James Bond, si rimprovera loro di non mettere etichette e frecce esplicative... Etichette e frecce esplicative oltretutto particolarmente risibili e inaffidabili in questo mondo di servizi segreti decisamente allo sbando, dove la rottura dell’equilibrio politico e militare, garantito per decenni dal confronto diretto fra USA e URSS, ha probabilmente privato più di uno di bandiere e buone cause per le quali combattere, a parte se stessi. Sarò partigiana, dato che appartengo agli estimatori di questa trilogia (anche se il secondo direi che resta il mio preferito), laddove i romanzi non mi avevano per nulla commossa, ma trovo una certa ottusità nel non capire che la trilogia di Bourne, per niente stiracchiata, è la capostipite di una nuova era delle spy-stories, e come tale esigeva un nuovo modulo narrativo, anche dal punto di vista puramente tecnico e visivo, così come lo cerca, sperimentando a vari livelli, Greengrass. Allo stesso tempo, la perdita di memoria di Bourne, che pure implica nel personaggio una inevitabile crisi esistenziale, è però funzionale ad altre considerazioni più urgenti. Come per un sonnambulo, ciò che maggiormente preme è riuscire a risvegliarsi, e possibilmente senza danni irrimediabili: altre considerazioni più filosofiche non potranno che seguire a questo indispensabile risveglio. Prima che una perdita d’identità anagrafica, è infatti una perdita di conoscenza, una perdita di dati a tormentare il personaggio, assieme a ricordi di avvenimenti traumatici del passato illeggibili perché troppo confusi, dato che è questa perdita di dati a impedirgli di comprendere il proprio presente e il ruolo che in esso egli è costretto a giocare alla cieca: Jason oltre a non sapere chi è, soprattutto non sa cosa, per chi e perché, “è”. Lo può intuire: l’imprinting di un addestramento talmente radicato da diventare automatismo - laddove, con la memoria, svanisce anche parte della consapevolezza razionale della “macchina” Jason, lo sorregge sempre una istintualità quasi animalesca - è troppo eloquente per non essere decifrabile in un solo modo. Ma con la memoria è scomparsa la motivazione originaria delle sue azioni, ed è questa, assieme ad una valutazione di valore circa quella motivazione, che Jason cerca. Lungi dall’essere una trovata narrativa stucchevole, l’amnesia di Bourne è il vero fulcro portante di questo personaggio dato che è la sola cosa che gli consente di sfuggire al più profondo dei condizionamenti subiti, quello ideologico, senza il quale egli è paradossalmente finalmente libero di osservare se stesso e quanti hanno contribuito a farlo divenire ciò che è, consentendosi di potersi e poterne giudicare l’operato. Ma veniamo in particolare a questo ultimo film: richiede molta attenzione allo spettatore, che il regista sceglie di scaraventare nel bel mezzo del finale dell’episodio precedente, senza spiegazioni o riassuntini iniziali, sia perché nella sua azione si incastrano a sorpresa alcuni momenti del precedente episodio rivelandocene degli sfalsamenti temporali all’epoca non percepibili; sia perché finalmente ci è concesso di sbirciare nel dossier top secret dedicato alla carriera di Bourne, e fra il primo omicidio a Berlino dei coniugi sovietici Neski, e l’ultimo di Wombosi, fallito per l’incapacità di reggere il disarmante sguardo innocente di un bambino, omicidio fallito dal quale prende l’avvio tutta la storia, scopriamo ce ne sono stati altri: con facce, nomi e cognomi terribilmente yankee. E scopriamo anche che probabilmente, viste le varie scelte che costellano gli avvenimenti, di omicidi, sia Bourne, sia il Webb che si prepara a riemergere, non ne possono davvero più: Bourne non uccide tanto per farlo o come se il farlo non avesse comunque sempre un valore negativo, lo fa solo quando non gli si lascino alternative. Emblematica diviene quindi la battuta dell’agente Cia Pam Landly che aiuta Jason perché, man mano che inseguendolo e perciò cercando di comprenderlo, disgustata dal vedere scegliere con indifferenza fanatica metodi sbrigativi che non si pongono problemi di fronte ai cosiddetti “effetti collaterali”, va scoprendo il marcio che si nasconde ai più alti livelli dell’Agenzia, così giustifica la sua scelta: ”Non mi sono arruolata per questo. NOI NON SIAMO QUESTO”. E speriamo sia vero. Come s’è detto, l’azione non manca, in un frenetico susseguirsi di location, fra Europa, USA e Marocco, e finalmente anche grazie a qualche aiuto, Jason ritroverà la “casa sicura”, dove tutto ha avuto inizio con il suo addestramento, e il ricordo della sua trasformazione da patriota (che non necessariamente, come ultimamente si tende a credere, è una parolaccia) in assassino: restano però oscure, nonostante i brandelli di spiegazione offerti in Supremacy e in Ultimatum, man mano che con il protagonista andiamo scoprendo l’esistenza di una specie di Agenzia nell’Agenzia (vi stupisce?) salendo di grado gerarchico in grado gerarchico, le ragioni di questa sua scelta con la quale egli fa dolorosamente i conti da quando lo abbiamo conosciuto, e i reali scopi e la natura delle azioni “terminate” di questo progetto di addestramento sperimentale così segreto, che chi ne dovrebbe essere al corrente, garantendo legalità e correttezza nell’operato della Cia, presidente degli States in testa (come per noi, anche il Presidente americano è comandante in capo delle forze armate) devono restarne all’oscuro, a costo di molte vite umane innocenti. In fondo, come accade solo nei film, tutto questo castello di prevaricazioni, assassini e abusi di potere che dura da anni crolla di fronte al ronzio di un obsoleto fax azionato da Landy... Come cittadini che vogliono continuare a credere al valore di una serie di principi costituzionali, nonostante il prevedibile happy end, credo siano proprio le mancate risposte circa queste azioni e questi obiettivi ad inquietare e a lasciare insoddisfatti di fronte alle aspettative nutrite rispetto a questo Ultimatum. Ma il sorriso di Nicky, l’agente logistico dell’Operazione Treadstone, che sulle note di Estreme Ways di Moby, alla fine di Ultimatum, sancisce sorniona e complice dello spettatore il vero trionfo di Bourne, ci fanno ben sperare che le indiscrezioni di Matt Damon sulle implicazioni di un finale aperto del film siano fondate. Anche senza per questo scordare che un film è solo un film, e la realtà, all’indomani delle prossime presidenziali americane dopo un mandato particolarmente “opaco”, è la realtà. E il pensiero va ad un altro film - “In ascolto - The listening” - del 2006, decisamente meno spettacolare e ricco, coraggioso esperimento del giovane regista italiano Giacomo Martelli al suo esordio, passato temo inosservato o quasi, mentre sia pure con qualche perdonabile ingenuità proponeva un grosso e grave problema all’attenzione dell’opinione pubblica: ECHELON ovvero il per nulla leggendario, ma realissimo, Grande Orecchio, gestito dalla National Security Agency americana, che amorevolmente veglia materna su tutti noi, e ci ascolta tutti in continuazione...Etichette: le vite degli altri |
postato da la Parda Flora
alle 17:37
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