01 giugno 2006
Di pagliuzze e di travi altrui.
Di pagliuzze e di travi altrui.

Mi avvicinai alla Kaballah da ragazzina. L’insegnante che ebbi allora, e che mi indicò i testi di Scholem, conservati nella biblioteca della sinagoga della città nella quale vivevo, traslitterava dall’ebraico la parola, a differenza di Scholem, così, con due elle, perché me ne risultasse più evidente la accentazione nella lettura. Da allora, m’è rimasto il vizio: dico kabballà e scrivo kabballah. Tenuto conto delle molte versioni che sono normalmente accettate nella traslitterazione in caratteri latini di tutte le lingue che usino alfabeti diversi o ideogrammi, non mi pare questa grande colpa: oltretutto è attaccata al ricordo di un uomo coltissimo e che m’intimidiva molto, ma dal quale c'era una marea di cose da imparare e che non capiva perché una giovane cattolica si interessasse della sua religione.
D’altronde, forse all’epoca non lo capivo neanche io.
Forse l’ho già detto, nel caso me ne scuso: io credo fermamente che ad ogni essere umano, per evolversi e crescere, venga affidato un koan, come ad un allievo Zen. Solo che qui lo zen non c’entra, o perlomeno non necessariamente. Non è una questione di new age come troppo spesso viene vissuta. E’ che ogni persona ha un suo mistero da svelare, un talento da esplicare anziché seppellirlo sotto terra per paura. E la terra può essere quel fango della sporcizia dell’anima che sempre più ci abituiamo a vedere attorno e, Dio non voglia, dentro di noi. La maggior parte degli esseri umani, ho constatato, questo koan neppure lo percepisce e solo una minima parte ne coglie l’urgenza. Non conosco nessuno che lo abbia risolto - forse nell’attimo della morte. Perché noi possiamo usare il linguaggio degli altri dei, ma per davvero siamo intrisi solo del nostro, e attraverso il nostro, lo si voglia o no, vediamo il mondo.
Quindi torniamo a noi e alla lotta che Giacobbe sostenne con l’Angelo - ecco, ora vale la grafia latina, per i più astuti o i più velenosi fra coloro che strisciano sul proprio ventre.
Il suo significato è così ovvio, che non varrebbe quasi la pena parlarne: non c’è incontro senza scontro. Ma quanti lo sanno davvero? E dove porre l’accento, sullo scontro o sull’incontro? Cosa definisce la sottile ragnatela dei rapporti umani?
Dunque, la lunga notte di Giacobbe e l’Angelo, al passo dello Jabbok, è la metafora della relazione umana, almeno questa è la visione che ne dà la teologia cattolica. Ma se tutto è così semplice, allora da dove nasce il divieto di mangiare il ghid mhannashé della coscia (nervo sciatico) al quale è dedicato un intero capitolo del Talmud e tanto lavoro e incertezza (ne esistono e si discusse nel tempo di varii metodi)crea ai macellai kosher, mentre Ya’akov si guadagnò il nome di Israel, ovvero Egli ha lottato con Dio?



Quasi tutti, non solo il povero Gustavo Vinay, al quale il CISAM di Spoleto ha dedicato tante iniziative commemorative, allievo di quel Falco che tanto venne penalizzato dalle leggi razziali, e del quale ci rimane una Storia della repubblica Romana che possiedo in una delle prima edizioni, scrivono Valdo.
Vinay, come si sa, era valdese per parte di madre, uno dei pochi sopravvissuti nelle vallate piemontesi di Torre Pellice, e pensando ai suoi rapporti di quel periodo con il suo maestro su questa consuetudine atavica alla fuga e al nascondiglio della sua gente s’interrogherà a lungo, ripensando al complicato rapporto di amore e viltà che durante la guerra lo legò al suo maestro-padre Giovanni Falco, estromesso dall’insegnamento. Tanto che negli Anni ’60, gli stessi anni che videro trionfare - finalmente - Giuseppe Berto con il suo Male Oscuro, ideale lettera al padre, e affacciarsi al mondo culturale italiano anche la narrativa o la saggista dell’inconscio umano, scrisse un delizioso libretto verosimilmente liberatorio, ma ormai introvabile: I pretesti della memoria per un maestro.
Anche se ho studiato e studio con passione la storia delle eresie, il mio maestro è ovviamente stato un altro, allievo di Giovanni Tabacco (e scusate se è poco), che di Vinay e di quegli anni - che videro all’Università di Torino anche i Garrone, Pavese .... - parla con passione e a volte una punta di disincanto (ad esempio, secondo lui Pavese era insopportabile), ma ritiene la grafia Valdo, una storpiatura.
Essendo al momento uno dei più grande storici di chiesa ed eresie medievali, in Italia e all’estero, in maniera particolare sul francescanesimo e sul valdesimo o valdismo che dir si voglia, io da lui ho imparato a chiamare Pietro Valdesio, perché questa è per lui la corretta grafia del nome, compreso sotto esame. So che è inconsueta, ma in libri prestigiosi ho letto talmente tante imperfezioni, quando si parla fuori dal proprio campo, che mi attengo convinta all’insegnamento del mio maestro Grado Giovanni Merlo, ritenendolo sufficientemente qualificato per decidere di un nome piuttosto che di un altro, e me ne infischio del resto - la storia è una delle materie più in evoluzione: usare un autore di cinquant’anni fa può essere deleterio, o talvolta addirittura ridicolo, soprattutto, se non si sa di cosa si parla e quando si fa da imparaticci per puro spirito di polemica.
L’ho detto e ridetto, e lo dico ancora: parlo di ciò che so, del resto taccio, come sarebbe bene facessero un po’ tutti. Poi un refuso mi può scappare; ne trovo in continuazione anche nei “libri sacri.”... da quando poi sono in cura sono aumentati in maniera avvilente, come altri piccoli disturbi neurologici, però doversi attaccare a quelli per poter offendere vuol dire essere proprio vuoti come una zucca!

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postato da la Parda
postato da la Parda Flora alle 12:07  

 

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