05 gennaio 2008 |
Zen on writing |
Lo pensavo un po' di tempo fa, e ora che per caso lo rileggo, mi pare ancora valido. Così lo ripropongo, dato che molte cose sono cambiate nel frattempo. E anche per ricordare a me stessa l'importanza di quel "sapere cosa togliere", che è non solo scrittura, ma arte di vivere.
Mi stupisce sempre che nelle varie segnalazioni di libri dedicati alla scrittura non compaia “Lo zen nell’arte della scrittura” di Ray Bradbury. Mi stupisce e mi dispiace, perché a questo smilzo libretto sono piuttosto affezionata e trovo che, fra le numerose opere attorno alla scrittura pubblicate da qualche anno a questa parte, più di altre meriterebbe di essere conosciuto e gustato. Innanzi tutto per come è scritto – che io sappia, Bradbury è il solo scrittore che riesca ad essere lirico usando come metafora il vomito dei cani – anche se, certo, ogni tanto gigioneggia un po’ facendo il verso a se stesso. Ma sa usare in un modo tutto suo quella certa secchezza così americana nello spezzettare la frase (trovarne una che superi le tre righe è una faticaccia) tirandone fuori risultati sontuosi. E poi colora la pagina, la fa respirare traforandola di vuoti con la sapienza dei suoi a capo e degli spazi bianchi sospesi, che ritmano la sua prosa in un modo che, immagino, avrebbe deliziato Flaubert. (Tutte le arti, grandi e piccole, sono l’eliminazione di un movimento inutile in favore di una dichiarazione concisa. L’artista impara cosa togliere.)
In secondo luogo, merita di essere letto per ciò che dice: sulla scrittura e, quindi, sulla vita. Con passione, grande onestà, credo, e una ineffabile ironia – autoironia ? - che sa rendere lievi anche gli incubi più spaventosi. E’ chiaro, io sono politicamente scorretta: Cronache marziane l’ho letto da ragazzina e l’ho trovato di una bellezza commovente, tanto da non avere poi più il coraggio di rileggerlo per paura di una delusione. In compenso però ho poi letto di Bradbury tutto quello che mi è riuscito, comprese alcune opere ormai introvabili nell’edizione italiana, e trovo che assieme al Saroyan della Commedia umana abbia il dono raro di saper raccontare magistralmente l’infanzia e l’adolescenza che scolorano l’una nell’altra. Poi certo, ci trovi una certa provincia americana, un certo momento della storia americana che non sono più, ma questo mi ha sempre colpito meno: sono i ragazzini di Bradbury ad essere magici così come, immagino, sono magici i profumi e i ricordi delle estati infinite che tutti noi abbiamo vissuto a quell’età. Così i saggi raccolti in questo libro hanno il colore e l’odore fresco e amaro dei fiori di tarassaco – dandelion – che punteggiavano i prati nei quali abbiamo fatto le capriole e giocato a nascondino, quando nelle sere di giugno c’erano ancora le lucciole. Piccole illuminazioni, vertigini d’infinito, come in un haiku: lo zen nell’arte della scrittura, appunto. ”Da adesso in poi spero di stare all’erta per educare me stesso meglio che posso... Siamo coppe, che vengono costantemente e lentamente riempite. Il trucco è sapere come svuotarci e lasciare uscire la materia buona.”Etichette: cose ritrovate |
postato da la Parda Flora
alle 10:22
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