26 dicembre 2007
Come Santo Stefano
In uno delle prime lettere che Chris, uno dei protagonisti di Platoon, manda alla nonna, dice più o meno - qualcuno ha scritto che l’inferno è lo smarrirsi della ragione. Trovo sia una definizione efficace, soprattutto in quel contesto, ma non solo. Se c’è chi muore sempre, inevitabilmente, in una guerra, quella è l’innocenza. Concetto non certo originale; più volte ripreso, nei film contro la guerra. Certamente nei molti film che gli americani hanno dedicato, con angolature ed esiti finali diversi, al loro grande mostro, rimosso e credo, ancora sanguinante, che è il Vietnam.
Poi questo film dice molte altre cose: di come in realtà l’America fosse solo una utopia “per ragazzi molto ricchi”, e accanto alle lotte giustificate alle coscienze “per portare la civiltà o fermare la barbarie in altre nazioni”, in realtà fosse ben lungi dall’aver finito di combattere le sue guerre per una reale integrazione e il riconoscimento dei diritti civili per tutti - non molto diversamente da adesso, a voler guardare bene, temo.
Anche se l’eroe non è più il “buon” sergente Elias (che a me pare semplicemente un essere umano corretto, non un santo) anche se Stone gli dona una morte da martire cristiano, in una lentissima scena nel quale egli viene crivellato di pallottole come Santo Stefano di pietre, con le braccia levate in una specie di inutile preghiera al cielo assolato e indifferente (i suoi commilitoni, sugli elicotteri, se ne stanno già andando abbandonandolo forse con sollievo al suo destino) e uno sguardo quasi lievemente stupito nel capire la morte. Anche se di eroi, per buone o cattive cause, forse siamo stanchi.
Mentre Chris guarda il bellissimo cielo stellato, in uno dei rari momenti di quiete, proprio con il sergente Elias, veterano che ha perso l’innocenza, ma non la propria umanità o forse la ragione, il suo superiore confesserà quello che immagino fosse il pensiero che si era formato il volontario Stone, fante della “Compagnia” Bravo a cavallo fra 1967 e 1968, su quel tragico pantano, umano e politico: “Quando sono arrivato qui, tre anni fa, credevo a questa guerra. Oggi, non più. Credo che noi americani le abbiamo suonate a talmente tanti, che adesso è ora che inizino a suonarle a noi”.
Ebbene, pare che quel tempo sia venuto, nonostante tutto. E probabilmente, come nei giochi infantili, anche nella storia, viene per tutti il momento di “stare sotto” e dover fare tana agli altri...
Solo che non sempre tutti i bambini sanno stare al gioco e capire e accettare perché arrivi anche il loro turno.

Nel 1968 succedevano tante cose: avevo un cugino che pregava di non essere richiamato e gettato in quell’inferno; ne avevo un altro, che impegnato a sopravvivere, si faceva passare accanto il Maggio a Parigi senza quasi accorgersene.
Io...beh, io vivevo da anni ormai su di un confine che ho attraversato innumerevoli volte, anche se ormai non esiste più, da alcuni giorni. Andavo a scuola con altri ragazzini, alcuni figli di esuli istriani, altri slavi che non si integravano, a testa alta, e vivano in una loro parte del paese, separata dagli italiani, avevano la loro chiesa e i loro negozi e i loro nomi. Qualcuno era tornato dopo anni di immigrazione in capo al mondo, per non sapersi ritrovare in nessuno.
Andavo spesso da una vicina di casa, giovane sposa che arrivava da un paesino della Yugoslavia, che - ripensandoci, con gran pazienza - mi insegnava a dire “buon giorno” e “buona sera” nella sua lingua; mi spiegava come gli abitati del paese più vicino a quello dov’era cresciuta usassero però un’altra lingua per dire le stesse cose; mi spiegava i riti della Pasqua come li aveva sempre compiuti lei, così diversi dai miei; mi faceva a volte piccoli doni quando qualche parente la veniva a trovare. Mi piaceva stare nella sua cucina, non so perché: perché sapeva di buono, credo; se non ricordo male, spesso faceva in casa il pane e dolci per me sconosciuti.
Se ora ci ripenso, chissà quanti dei suoi parenti, degli abitanti del villaggio vicino al suo sono ancora vivi.
Sentivo tante storie - ho sempre amato le storie che i grandi raccontavano fra loro, come se un bambino apparentemente distratto non fosse presente, non sentisse e capisse, anche se magari a modo suo - e spesso non erano storie belle, anche se c’era, nel disprezzo e nell’odio che alcuni nutrivano per altri, qualcosa che allora naturalmente non potevo comprendere.
A cavallo fra una guerra e l’altra, le storie non sono mai belle.
Perché, nonostante fossi piccola, so con certezza che tutti si aspettavano un’altra guerra, appena non ci fosse più stato Tito. Era un sensazione concreta, solida, di ribollire di cose diverse e inconciliabili, che si agitano come serpenti chiusi in un sacco, cose che aspettavano solo che la fragile crosta di apparente normalità s’incrinasse, per riportare secoli di recriminazioni, odi, abitudine a girare sempre armati, inconciliabile capacità di dare uno stesso nome alle stesse cose o meglio di intendere con quel nome le stesse cose, per esplodere.
Per questo, credo, negli Anni Novanta, non mi sono stupita per quel che stava accadendo, anche se ho sofferto, tantissimo, ricordando volti di tante persone, e chiedendomi cosa fosse stato di loro, dei loro parenti, dei loro amici, dei loro “vicini di casa” o di villaggio.
Anche se le immagini che conservo con più forza di quel 1968 sono legate alla bellezza del Plitvička Jezera e alla gentilezza di molte persone conosciute in viaggio e le buffe difficoltà di mio padre alle prese col caffè fatto alla maniera turca.

Tutti simboli di una diversità che a me, bambina curiosa, appariva affascinante, non pericolosa - come ancora adesso credo dovrebbe essere il giusto atteggiamento di fronte alla diversità - ma che col tempo si è rivelata vasta come il mare, e capace, così almeno mi pare, di portare solo odio. Solo l'infernale smarrirsi della ragione.
Durante il mio ultimo ricovero in ospedale ho conosciuto una infermiera ruandese, che mi mostrava le cicatrici sugli avambracci, che le aveva lasciato addosso il vicino di casa di sempre, dopo averle massacrato l'intera famiglia mentre lei era assente per lavoro - ma tutti ovviamente sappiamo, senza nulla togliere al legittimo diritto di scegliere del singolo e quindi alle responsabilità personali che sono convinta sempre ne conseguono, quali siano le responsabilità anche dell'arroganza coloniale belga, in quel dramma, anche se non credo nessuno abbia mia presentato, sinora, conti da pagare.

Ora sembra che uomini, natura e tempo abbiano ricostruito un po’ di quello che la guerra distrusse. Almeno per il Parco dei Laghi pare sia stato possibile.

Poi, poi ebbi la ventura, fra altri soldati della nostra missione Nato, di conoscere il vero soldato la cui avventura ha ispirato (come diligentemente recitano anche i titoli del film), il non eccelso Behind Enemy Lines, con la sola differenza che il protagonista vero di quella vicenda non assomiglia nemmeno un po’ al biondo Owen Wilson e guarda un po’, non è neppure americano (ma come si può fare un film senza un eroe americano?), anche se molte altre cose del film sono vere; altre no; ma questa è un’altra storia.

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postato da la Parda Flora alle 11:17  

 

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