05 gennaio 2007
Di Pacs e di amore: riflessioni in libertà...
Partiamo da un dato di fatto: il mio più caro, amato amico era omosessuale. Abbiamo condiviso vent’anni di rispetto e reciproco affetto profondissimi, poi, anche per la ottusità del mondo, la vita ci ha allontanati, ma la cosa per me appartiene agli eventi più negativi e dolorosi della vita..
So di aver perso un fratello, il fratello che non ho avuto mai e ho sempre desiderato, e scusate se è poco.
Quante volte mi ha abbracciato, donandomi senza chiedere nulla quella comprensione e quell’amore accogliente e pietoso - sì, amore - che neppure il mio compagno riusciva a darmi...
Eppure, per i maligni o gli individui in mala fede, specifico che non c’era nulla di erotico, né tanto meno sessuale, in ciò: c’era amore, fraterno, amicale, quello che i cristiani chiamerebbero agape, disposto a tutto per l’altro, e mi ritengo fortunata e onorata di aver goduto di questo privilegio per vent’anni, anche se ancora lo rimpiango...
Quando suo padre è stato operato, c’ero io, con la madre e lui, fuori dalla sala operatoria, ad aspettare e cercare di tenere l’atmosfera alta... quando c’erano goliardate da coprire per nascondere a chi non doveva sapere, la verità, c’ero ancora io, che mi sono scapicollata più di una volta, volentieri, senza mai permettermi di giudicare.
Quando fui operata per un sospetto cancro, con i miei genitori c‘era lui, e mia madre ricorda ancora sia il lieve buffone che tentava di alleggerirle l’attesa di ore, sia il gesto gentile di andarle a prendere il caffè ben zuccherato, per aiutarla ad aspettare la fine dell’intervento. E il primo ricordo del mio risveglio dall’anestesia, dopo cinque ore di operazione, fu la sua faccia affettuosa che mi diceva, da quel perfetto giullare che era: congratulazioni, ragazza - è un maschio di quattro chili!
So che il mio amico fu molestato da bambino, anche se la sua situazione familiare era da manuale - madre forte e padre inesistente - perché me ne raccontò, in un pomeriggio d‘autunno mentre le foglie di quegli stessi giardinetti dove aveva subito molestie, volavano nell’aria in attese di marcire.
Ma non è questo il punto: al momento della leva, lui si negò la facile scappatoia dell’omosessualità perché non la riconosceva, orgogliosamente, come malattia. Non so se avesse ragione, so che, a causa del corso ufficiali, questo fece sì che io dovessi rinunciare ad averlo testimone alle mie nozze, e che ciò fu un dolore per entrambi.
Le mie questioni con il Dio, ritengo riguardino solo me, anche se a volte mi permetto giudizi o valutazioni forse non proprio ortodosse. A questo punto della mia vita, dopo tanto dolore che io sola conosco, e un po’ qualche amico, e penso soprattutto a un signore implacabile quasi quanto me, al quale voglio molto bene e che si chiama Mario... mi reputo agnostica: meglio cercare una strada, che abbandonare per sempre vigliaccamente il cammino, che oltre tutto non è neppure nel mio carattere combattivo.

Tutto questo nasce da un “fondo“ di Scalfari che mi ha fatto ricordare e riflettere. Scalfari parla dei diversi e del dovere cristiano di amarli. Io, non avendo fatto altro, non posso che essere d’accordo con lui. Scrive Scalfari che alcune delle lettere ricevute “si concentrano sull'amore del prossimo. “Il prossimo - così mi scrivono questi lettori - non si compone di diversi ma, appunto, di 'prossimi', cioè di nostri simili. Possono essere più deboli, ammalati, infinitamente poveri e derelitti, ma comunque simili. Quella somiglianza è radice comune e suscita, deve suscitare, la nostra com-passione, superare e vincere il nostro egoismo.
Ma la questione è diversa per i diversi. .
I quali sono tali non per errori o ingiustizie della società alle quali va posto riparo, ma per loro libera scelta. Hanno scelto di essere diversi. E l'hanno scelto in un aspetto delicatissimo, quello dell'amore sessuale. Amore contro natura.”

L’antropologia e l’ etnologia ci insegnano, a volerle ascoltare, che il modello di famiglia, lungi dall’essere univoco, è vario come le culture che lo hanno prodotto. Con il che non voglio rinunciare ad un padre e a una madre, ma voglio solo tentare di scalfire le certezze granitiche di coloro che hanno il timore ossessivo di confrontarsi con realtà diverse da quelle che conoscono. Perché, temo proprio, ne uscirebbero con le corna rotte!

Le famiglie monogamiche, quelle che per noi oggi sono ovvie, non lo erano appena un secolo fa, nel meridione d’Italia per esempio, quando invece la famiglia era allargata perché si basava sul principio economico della mezzadria. A testimoniare che, anche ciò che riteniamo inscalfibile, si scontra sovente, e ha la peggio! con la storia e con la economia. Ciò che infatti l’antropologia culturale, faticosamente, dalla sua nascita e con molti errori, ci ha insegnato, è che non esiste un solo modello valido per tutte le situazioni culturali, e non esiste un modello che sia migliore degli altri, in tutte le situazioni culturali.
Ciò naturalmente non ci vieta di avere le nostre convinzioni, ma, si auspica, dovrebbe allargare la nostra mente, portandola ad accettare che le realtà con le quali essa si deve confrontare sono molte di più e molto diverse da quelle alle quali siamo abituati a pensare. Insomma, ad avere qualche certezza in meno e qualche dubbio in più.
Per esempio, presso i Nayar del Messico, le madri non si prendono necessariamente cura dei figli che hanno generato. Perché scandalizzarsi? qual è il numero di tate e bambinaie presso la nostra società? se ci sforziamo di essere onesti intellettualmente, scopriremo che la differenza fra le madri Nayar e le madri lavoratrici della società attuale è molto meno marcata di quanto vorremmo (o ci farebbe comodo credere in un primo momento).
Non mi si fraintenda: ho ben chiaro qual è il tipo di società nella quale viviamo. Vorrei solo che la si smettesse di usare le foglie di fico che andavano tanto di moda qualche secolo fa: per fortuna siamo cresciuti! O almeno si spera...
E’ vero che il modello poliginico, appartenete per esempio alla cultura araba, anche se meno diffuso di quanto si creda, rivela tutte le crepe che insidiano le unioni umane, ma è pur sempre un modello esistente e diffuso.
Così come è diffuso il modello familiare nel quale il figlio non ha un padre riconosciuto, ma è figlio dell’intera comunità.
Se vorrete riflettere un attimo, vedrete che non incontriamo modelli poi così diversi dai nostri tanto esecrati Pacs, etero o omosessuali, che così ci appaiono sperimentati da secoli da culture, questo sì, diverse dalle nostre, ma dove il diverso è tale soprattutto perché si inserisce in genere nella nostra ottica colonialista, che ama pensare l'altro sia peggiore di noi, ma non vuol dire necessariamente che ciò sia vero.

Si potrebbe concludere, domandandosi, fra tanti modelli e scelte, che c’entrino Pacs e amore?
Ma non vi pare, forse, che non esista sentimento più meritevole in ogni sua forma di essere salvaguardato e protetto?

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postato da la Parda Flora alle 17:33  

 

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