14 giugno 2008 |
Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street |
In un certo senso, Sweeney Todd chiude un percorso iniziato dal sodalizio Burton - Depp molti anni fa, con Edward Mani di Forbice (1990). Allora, le lame erano il simbolo dell’incompletezza non voluta di una creatura, nata un po’ per capriccio un po’ per l’intuizione geniale di un Demiurgo gentile, novello e misantropo Frankestein, che aveva in un felice attimo creativo intuito la possibilità di fornire di un friabile e dolce cuore di biscotto uno dei suoi cervellotici e buffi macchinari, così cari alla iconografia tipica di Burton, nel tentativo, sin troppo dolorosamente riuscito seppur interrotto dalla precoce morte del suo Creatore, di donargli una vita e una umanità. Tanto che per Edward non resterà altra salvezza se non l’isolamento e la solitudine, duramente segnati dalla rinuncia al suo lecito sogno di amore e accettazione: un sogno, immagino, condiviso da molti in una società segnata ferocemente (e il film burtoniano non offriva sconti a nessuno!) dal conformismo, dalla superficialità, dall’egoismo e nonostante un’apparente patina di civiltà, dal sempre attuale detto hobbesiano sempre pronto a riemergere - homo hominis lupus ... Edward, in questo mondo falso che si stende ai piedi dell’oscuro e fatiscente castello che lo ha visto nascere, mondo di quartieri residenziali tutti uguali resi efficacemente da una scenografia zuccherosa nelle sue tinte pastello e nei suoi ridicoli tic, è un innocente, e come tale destinato a fungere da capro espiatorio per il rifiuto sociale di tutto quanto, discostandosi dalla più piatta normalità, ce la rende più oscura, ambigua, temibile, ipocrita e quindi inaccettabile nella sua nuda e cruda essenza.
Oggi, invece le scintillanti lame d’argento dei rasoi del barbiere Benjamin Barker diventano, in una affermazione pregna di significato, la raggiunta completezza - affermata ad alta voce e con forza - del braccio del vendicatore Sweeney, diabolico barbiere di Fleet Street, inaspettatamente riemerso da un passato di corruzione e ingiustizia che lo aveva travolto, e che perduta ogni speranza trova la sua giustificazione d’esistere solo nella ricerca della vendetta. Attività alla quale Sweeney si dedicherà con entusiasmo più che professionale, nella rappresentazione burtoniano della leggenda del barbiere pluriomicida, che ha ispirato testi letterari e un famoso musical al quale direttamente si rifà il film di Burton. E proprio pensando all’universo burtoniano, è esemplare la scena che vede la creazione della sedia reclinabile (leve e ingranaggi, come nelle benevole creazioni del “papà” di Edward, qui invece non prive di un nero tratto di sberleffo grottesco, nella loro innegabile efficienza) che scaraventa i cadaveri degli esseri umani eliminati - in nome di una totale sfiducia di Sweeney nella loro bontà e quindi tutti indistintamente meritevoli di morire - nella misteriosa e inquietante cantina di Mistress Nellie Lovett, pragmatica produttrice di pasticci di carne e sua complice e amica, non indifferente a possibili legami amorosi e affettivi, sia pur anch’essa corrotta dall’interesse personale e da “questi tempi duri che oggi tutti viviamo”. Tuttavia, anche lo sfaccettato personaggio di Nellie, come si scoprirà, agisce in nome di un lungo amore non corrisposto da qualcuno per cui la sorgente dei sentimenti è stata da tempo disseccata dalla ingiustizia patita, e non è priva, a fronte di una spregiudicatezza e impermeabilità morale invidiabili persino dal più cinico lobbista, anche di momenti di autentica commozione, gentilezza e generosità. Ma del sodalizio fra il barbiere e la ristoratrice, ciò che maggiormente colpisce è la inaspettata capacità di sfruttamento “imprenditoriale” dell’assassinio che appare gestito quasi secondo principi antesignani del fordismo della catena di montaggio, e sulla quale Mrs. Lovett si concede (in graziosi siparietti colorati ritagliati nell’altrimenti rigoroso grigio “fumo di Londra” della scenografia) di sognare persino la costruzione di una improbabile felicità a due piccolo-borghese ovviamente irrealizzabile, con le conseguenti implicazioni (di stupefatto giudizio umano e di sceneggiatura) che inevitabilmente ne conseguono, mentre una inquietante nube più nera persino della scurissima Londra creata da Dante Ferretti si allarga come l’ombra del Male (come denuncia inutilmente la misteriosa mendicante che si aggira attorno all’antica casa di Barker) nel cielo sopra la trattoria della vedova Lovett. Quindi Sweeney uccide chiunque gli capiti a tiro, reso finalmente, all’opposto di Edward, un essere umano completo proprio dai suoi amici rasoi. Dato che a differenza di Edward, a Sweeney non interessa più poter usare le mani per accarezzare, per poter accostare i propri simili senza ferirli, ma solo per blandire e ingannare le sue vittime, mentre affila le sue lame con gli unici attimi di amorevolezza rimastigli, prima di sgozzarle. La sua indistinta attività omicida così diviene un palliativo nella impaziente e frenetica attesa di poter raggiungere i veri oggetti della sua vendetta, primo fra tutti il perverso giudice Turpin, che gli ha sottratto quella serena felicità familiare rispetto alla cui perdita Sweeney pare ritenersi in qualche modo colpevole, accusandosi d’ingenuità, non avendola saputa tutelare a sufficienza dalla malvagità e dall’invidia del mondo. Sweeney che descrive (“There’s a hole in the world like a great black pit and the vermin of the world inhabit it and its morals aren’t worth what a pig could spit and it goes by the name of London.”)
con rabbiose parole prive di pietà il verminaio umano che brulica nelle oscure, corrotte e sporche vie di una Londra che diventa il simbolo di tutti i vizi e le corruzioni che il potere esercita impunito sulla sorte degli innocenti e dei deboli, raffigurando la perdente lotta della ragione contro l’arbitrio, ma che è incapace di portare questa consapevolezza sino alle sue estreme conseguenze, assolutizzando invece il suo dramma individuale in una “Epifania” di odio assoluto quasi che il dolore e l’ingiustizia da lui patiti non lo affratellino a un destino sin troppo comune. In fondo, quindi, potremmo dire, Sweeney completamente ossessionato dall’orrore che lo ha colpito e marchiato a vita con quella sua vistosa ciocca bianca, a metà strada fra l’eccesso da cartoon o da film muto di Crudelia De Mon e La moglie di Frankestein, ciocca candida che ci ricorda anche come un forte shock emotivo possa imbiancare prematuramente i capelli, pur essendo una vittima o forse proprio per questo, si è ormai trasformato in un lucidissimo psicopatico, come lo accuserà la stessa Mrs. Lovett, distaccato da una corretta percezione della realtà - in fondo, già morto anch’egli, e lontano da qualsiasi sia pur sperata salvezza.
Con stupore ho notato come pochissimi abbiano colto qualche analogia fra la vicenda di Sweeney e quella di un’altra celebre ingiustizia, molto simile e nata dallo stesso movente, e anch’essa all’origine di una famosa, implacabile vendetta: quella del Conte di Montecristo. Ma invero la somiglianza è solo superficiale. Edmond Dantès, in molti anni di prigionia ha concepito un piano dettagliato e astuto per punire i responsabili dell’ingiustizia che lo ha colpito, ma sa anche provare pietà, distinguere innocenti e colpevoli, e soprattutto sa superare col suo percorso umano, lo stadio della feroce gratificazione procurata dalla possibilità di colpire chi ci ha colpito; così vi è per lui una speranza di rinascita, di una nuova occasione. Non così per Sweeney, che invece è completamente pervaso da un odio disilluso per l’umanità tale da privarlo della capacità di provare qualsiasi altro sentimento, al punto di sognare disperatamente un incontro con la figlia Johanna sottrattagli e quindi con quell'irrimediabilmente perduto passato da ingenuo barbiere che avendo la felicità in mano, non l’ha saputa preservare dalla sozzura del mondo, per poi alla prova dei fatti, non saperla riconoscere e risparmiarle la vita per un puro caso accidentale. Così il climax narrativo, accelerato fra un duetto e l’altro dalla efficientissima macchina di morte creata dai due diabolici soci di Fleet Street condurrà inevitabilmente a un finale tragico come quello di un dramma antico, segnato dalla cieca e inesorabile legge del Fato e del contrappasso, che ancora dalla colpa e dall’ingiustizia (questa volta messe in moto anche dal barbiere assetato di vendetta) vedrà sorgere un nuovo e altrettanto non proprio innocente angelo vendicatore, allentando finalmente una tensione che nello spettatore si era fatta quasi insostenibile.
Va detto che il film riesce, oltre a colpire profondamente lo spettatore pur mantenendo la forma ormai desueta e non più popolare del musical e servendosi delle voci non doppiate da cantanti professionisti dei notevoli attori protagonisti - l’infernale trio Todd-Turpin-Lovett - nella quasi disperata, eppur vincente, impresa di farci provare una sorte di feroce empatia con questi personaggi così legati a parti oscure dell’animo umano che, ci suggerisce Sweeney, emergono quando la disperazione dei tempi e delle situazioni lo richiedano. Ennesimo tentativo di penetrare nel labirinto di una mente che ha perduto se stessa, alla ricerca di spiegazioni, giustificazioni: operazione spesso scivolosa e non necessariamente interessante, ma che qui mi pare meglio riuscita che in altri casi. E gli ultimi barbagli della gentilezza d’animo che fu di Benjamin Barker, marito e padre amoroso, simboleggiati dal volto puro e luminoso della figlia in fuga dalla prigionia impostale dall’orrido Turpin, con l’aiuto del giovane e innocente Marinaio Anton, ancora capace di veder la meraviglia e la bellezza del mondo, mentre Sweeney cinicamente lo disillude con un patibolare: “Imparerai!” sono solo un pallido contraltare alla grandezza oscura e terribile di Sweeney Todd, che giganteggia su tutto e tutti, mentre piange le sue prime, e ultime, lacrime di sangue sul cadavere offeso della infelice moglie troppo tardi ritrovata.Etichette: le vite degli altri, parole e pensieri scritti sfacciatamente per me (checché ne dica l'Autore), pirlate |
postato da la Parda Flora
alle 09:41
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