07 settembre 2007 |
Callas forever... |
Oggi, alla Mostra di Venezia era in programmazione un documentario sulla vita di Maria Callas; ieri l’altro, per motivi assolutamente casuali, ho rivisto stralci di “Callas forever”, film del quale non mi va di parlare, se non per notare il rincorrersi di casualità e coincidenze nella vita. E’ evidente che entrambi i fatti - quello privato e quello pubblico - non hanno alcun voluto legame con la notizia della morte del tenore Luciano Pavarotti, che come Callas aveva da un po’ iniziato a fare i conti con il declino fisico che aveva incrinato la sua famosa voce, e che era spietatamente stato sancito da quella stessa critica newyorchese che lo aveva portato al trionfo per quei “do di petto” nella “Figlia del reggimento” che chiunque abbia letto un giornale o seguito la televisione ieri, ha sentito osannare sino alla noia. Solo che Callas aveva appena 53 anni, quando morì, dopo una vita non facile, credo anche per i mitici rigore e disciplina che imponeva, innanzi tutto, a se stessa, frutto, secondo il regista Kohly, di una infanzia da brutto anatroccolo, sotto tutti i punti di vista. Ma 53 anni sono davvero pochi per morire... Tant’è vero che all’epoca della sua morte qualcuno insinuò un, mai confermato da nessuna prova, suicidio. Semplicemente, Callas, che non aveva goduto sin da bambina di una buona salute, ha dovuto probabilmente soccombere proprio a quegli inflessibili rigore e disciplina che hanno fatto di lei la voce angelica che tutti ricordiamo. Non per essere banali, ma la prima volta che ascoltai “Casta diva” da Norma, camminai una spanna da terra per una mezz’oretta buona... Premetto, per onestà: non sono né una grande amante dell’opera lirica, soprattutto nella forma del melodramma; né una particolare esperta della materia. Tuttavia, ho sempre trovato la figura del cantante lirico particolarmente metaforica, emblematica di ciò che significhi vivere. Mi spiego. C’è chi ama il canto, ma nasce stonato: per lui, restano solo la cabina doccia e la rassegnazione ...cose che in genere sono accettate con sufficiente saggezza, a parte casi singoli nei quali la totale incapacità di accettare la propria mancanza di talento, non superabile neppure dallo studio e dalla dedizione più profondi, diviene un tormento così profondo e lacerante da non trovare sollievo, o forse meglio sarebbe dire - guarigione. Eppure, la voce ci deve essere: ed è un dono che ci si ritrova oppure no, ammesso pure sia un dono, dato che tutto ciò che prevede un prezzo, spesso salato, da pagare, per definizione dono non è. Anche se al momento non mi viene in mente un altro modo di definirlo. Ma poi, anche ammettiamo che la voce ci sia, una bella voce di tenore piuttosto che di baritono o di basso, è con esse che si fanno i conti: mentre le si esercita, e mentre si partecipa a concorsi e selezioni e ci si costruisce una carriera. Ché se nasci con la voce di baritono, potrai solo sognare Don José: la natura ti ha concesso, anche se sei bravo, di poter essere solo il torero Escamillo. E la vita è così: ti dona a volte un talento, ma quello che aggrada a lei, e con quello devi saper fare i conti, per non impazzire. E quando gli anni, la malattia o il dolore ti iniziano ad appannare quel dono, che hai dovuto accettare e coltivare per quel che era, è - immagino - come sentirsi strappare via i visceri. Anche se con una certa, a tratti, ridondanza fastidiosa, la Fanny Ardant di Callas Forever è secondo me proprio di questo che parla: della decadenza e della morte, e dei rimpianti che possono, nel loro avvicinarsi anche ai privilegiati dalla sorte, far nascere; e dell’immortalità dell’arte su chi la eserciti, dato che, come cerca invano di far comprendere il suo impresario, vi sono livelli di ascolto che vanno oltre l’inascoltabile... (e un po’, a questo punto, viene in mente S1mOne, di Niccol, satira non so bene se più sul divismo o sulla stupidità del pubblico, dove la finzione diviene più vera del reale, proprio per la disperata volontà di avere solo divi perfetti dei quali innamorarsi e ai quali non perdonare di essere umani, nel loro doloroso e inevitabile sfiorire, quasi potessero così salvare l’intera umanità dal proprio destino mortale.) Pavarotti aveva saputo, dopo concerti non eccelsi, ritagliarsi comunque oculatamente spazi di visibilità e presenza, che avevano reso meno direttamente palpabile il suo declino; forse, da buon modenese, con accanto una giovane moglie e molti figli, aveva anche saputo guardare alla vita con occhio meno tragico di quello di una greca, americana di prima generazione, abbandonata dagli affetti più profondi e dal suo mirabile dono, al quale aveva sacrificato cose apparentemente banali, ma che riempiono la vita dei comuni mortali, ritrovandosi da sola con un grande passato alle spalle che probabilmente coincideva con la sua stessa essenza vitale. D’altra parte, Callas appartiene a un altro mondo rispetto a Pavarotti: muore nel 1977! L’immagine, a volte più della sostanza, si prepara a consumare la sua rivincita mediatica: Maria se ne va appena in tempo, lasciando solo la purezza cristallina di una voce che definire miracolo non è certo esagerato.Etichette: cose perdute |
postato da la Parda Flora
alle 16:52
|
|
|
|
|