05 settembre 2006
Un muro
Ero seduta sul divanetto e fissavo il muro. Ho sviluppato una capacità professionale di fissare i muri, e anche i soffitti., tanto che a volte mi pare di vederci anche qualche cosa. Insomma, sono su questo divanetto e fisso il muro davanti a me e aspetto. Nella borsa c’è un libro - nelle borse in genere ho sempre un libro per i casi di emergenza - ma non mi va di leggere, non qui. Il divanetto è scomodo, la luce innaturale e sono tesa come un pugile che aspetti il knockout.
Nel corridoio parallelo, c’è un ragazzino di una cinquantina d’anni, che continua a chiedere spiccioli o sigarette, e più tu gli fai presente che non ne hai - un camice bianco passando lo ha fulminato con lo sguardo - più lui si fa insistente e fastidioso. Una signora in vestaglia color glicine, dai capelli stopposi e grigio cenere, con sguardo perduto si dondola su se stessa.
In fondo al corridoio della piccola sezione staccata, diciamo così, della psichiatria, c’è un grande prato con un laghetto per i germani, ora ghiacciato, che ogni volta mi ricorda sia Salinger sia Iggy la incantatrice d’api proprietaria del Whistle Stop Cafè nel romanzo della Flag. Pare che col freddo i germani si siano dati alla fuga, in cerca di specchi d’acqua più ampi e meno surgelabili: faccio il tifo per loro, anche se temo la pagheranno cara, fra idioti, cani randagi e inettitudine derivata dalla cattività .
Accanto a me, in piedi di fronte a un altro divanetto, c’è un signore piuttosto anziano, molto alto e distinto. Regge sul braccio come un giubbotto di salvataggio il suo cappotto cammello, e si guarda intorno, spiando gli studioli dei medici e le targhette coi loro nomi. Facendo finta di nulla smetto di guardare il muro e sbircio lui. Seduto sul divanetto c’è un giovane uomo che non supera di molto la trentina: il suo dolore e la sua paura sono palpabili come cotone soffice che imbottisca un cuscino. Parlano fra di loro, meglio parlottano, perché il giovane pare chiedere, rimostrare, e l’anziano invece si è assunto il difficile ruolo di consolatore. L’unica relazione possibile - guardo i loro nasi identici, la tenerezza con la quale l’anziano chiama per nome il più giovane, come se le sue labbra si fossero abituate a pronunciare con affetto e sollecitudine quel nome da secoli - è che siano padre e figlio.
Mi è inevitabile ricordare la prima volta che andai in oculistica a fare laser terapia per un iniziale distacco della retina sinistra. Dovendo rendere midriatica la pupilla, l’ovvio consiglio dei medici era di non guidare per alcune ore dopo la cura, così mi feci accompagnare in ospedale da mio padre. Dopo avergli indicato dove gli conveniva posteggiare, mi feci indicare l’accettazione e il reparto. Sbrigata la parte burocratica, ci sedemmo finalmente sui seggiolini di plastica dell’oculistica, e aspettammo, circa mezz’ora, in totale silenzio. Mio padre anzi si cercò una rivista e si mise a leggere. Finalmente feci la mia terapia (non è vero non sia dolorosa, in certi punti scendono le lacrime per il dolore anche se non vuoi) e riuscii.
E allora? mi chiese mio padre.
E allora domani devo tornare, ma non ti preoccupare, nonostante l’atropina ci vedo bene, mi arrangio io.
Va bene, disse lui, con evidente sollievo. Magari non gli piacciono gli ospedali, ma dubito che a parte gli ipocondriaci piacciano a nessuno.
Mi scuoto dal ricordo, né bello né brutto, lo definirei standard, e mi ritrovo mio malgrado a sbirciare i miei due compagni di attesa. Dev’esser successo qualcosa, nel frattempo, DENTRO il ragazzo, perché è sempre più agitato e piange, in un modo silenzioso e senza lacrime che mi strappa il cuore. Il padre si guarda attorno, visibilmente desolato, disperato e senza rivolgersi a nessuno chiede: ma si può lasciar soffrire una persona così? E’ possibile che una persona possa soffrire così tanto?
Mi rimetto a fissare il muro: ho visto in fondo al corridoio un camice bianco - venga a fare il suo lavoro, penso arrabbiata. Nella parete di fronte a me si aprono crepe come ragnatele, e anche nella vita, credo Magari sono i circuiti della Cricca del capo Bromden... Il soffitto invece è ancora intatto: riprenderò dal fissare quello.
postato da la Parda Flora alle 13:39  

 

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