25 luglio 2006
Finding Neverland
Una piccola pausa infantile, per alleggerire lo spirito. L’altra sera ho rivisto Finding neverland. Non è che io cerchi l’Isola che non c’è, ma Peter Pan nella mia infanzia è stata una delle fiabe preferite, assieme a quelle di Andersen, tristissime, e queste scene al parco, con un Johnny Depp incredibilmente ringiovanito che si rotola con il suo grosso terranova e che si abbandonano a giocare con grazia e leggerezza, mi hanno intenerito.
Uno dei ricordi più forti della mia prima infanzia è l’imbarazzo che provavo a salire su giostre e trenini, ritenendoli passatempi adatti solo a bambini, ed evidentemente non riconoscendomi rientrante nella categoria. Mia madre poi di solito aumentava indicibilmente il mio imbarazzo, pretendendo di salire con me con la scusa di “ farmi coraggio” (lei è invece sempre appartenuta alla categoria dei bambini).
Con questo non voglio dire che la mia infanzia sia stata uno schifo (probabilmente tutti avrebbero qualcosa da ridire sulla loro, compresa mia figlia perché ancora oggi io non sono capace di abbandonarmi lievemente al gioco e mi irrigidisco con un gran senso di vergogna) ma i ricordi più belli sonno i gatti accarezzati, i libri letti (quando potevo, perché portavo gli occhiali e allora si pensava che leggere indebolisse la vista, così anche questo passatempo mi era spesso negato), le mie fantasticherie.
Mia nonna era dura come un pezzo di pane secco, e la detestavo, e così sono rimasti i nostri rapporti sino alla sua morte, anche per come aveva ferito e mutilato mia madre, rendendola la bambina sciocca e insicura che mi aveva rovinato l’infanzia facendomi sentire la sua nurse.
A onor del vero va detto che anche mia madre ha rovinato la vita a me. Impegnata a trovare un padre per se, ne ha privato me, così forse un po’ bambina perduta sono stata anch’io, a pensarci bene. Non ho mai ceduto, non sono diventata la Barbie che avrebbe voluto mia madre, o l’ingegnere duro e cazzuto che avrebbe voluto mio padre, dato che non ero un figlio maschio. Ma ho pagato i miei prezzi, come tutti, immagino. Mi considero orfana da anni e gli scambi che posso avere ancora con i miei distratti genitori sono solo in natura: non ho mai trovato la finestra della mia camera chiusa, come Peter, ma quella era l’unica finestra che mi era concessa, ed era stretta, e doloroso e faticoso passarci.
So che a modo loro mi amano, e mi devo accontentare, anche se il vero aiuto del quale avrei bisogno non arriverà mai da loro, così come non è arrivato finora. Già allora, come oggi, scrivere era importante, una consolazione e una compagnia, anche se i miei mi proibirono di iscrivermi a Magistero, quando venne il momento, soprattutto mia madre che ebbe una tale serie di scenate isteriche, che io cedetti la mia penna per un bisturi che mi faceva schifo. Tuttavia studiai medicina, e dopo molto rifletterci, non rinnego quegli anni: il mio mondo era un po’ monotono e asfittico, ma credevo di poter sopravvivere, fra camici, medici, studenti di medicina, professori di medicina e specializzandi di medicina. Mi pareva di essere un po’ un panda: non è che a vivere di pastiglie Valda puoi sperare di andare lontano, mi diceva un mio amico, ma è una verità talmente limpida che a volte ti sfugge.
Più che un’alma mater, la mia università mi parve una prigione, e arrivata in fondo a un cursus ponderoso mi resi conto che sarei finita per fare il medico davvero, ma io non ero un medico, non mi sentivo un medico. Ancora oggi molti amici e conoscenti bazzicano gli ospedali limitrofi alla mia università: mia madre era soddisfatta trovassi sempre qualcuno da salutare e con il quale scambiare due chiacchiere. Io no.
Ci sono momenti nei quali il mondo va stretto, incredibilmente stretto, così quando finalmente uscì per la prima volta la video cassetta di Peter Pan e io lo rividi con mia figlia, scoppiai in un pianto disperato, improvvisamente consapevole di aver perduto il mio pensiero felice.
Disperatamente sola, memtre il mondo vive nonostante tutto.

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postato da la Parda Flora alle 10:00  

 

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