06 giugno 2006 |
Giacobbe e gli Altri |
La stanza è colorata, allegra: le poltroncine e i divanetti sono disposti ad ovale, e al centro due di loro si fronteggiano. Ognuno sceglie il posto che preferisce, e già questo lascia intuire ad un osservatore attento molte cose: chi sta più vicino al terapeuta e chi se ne allontana, chi sceglie il divano e chi la solitudine della poltroncina, chi cerca il sostegno della vicinanza di questo o di quello, e chi invece è indifferente ai compagni, chi infine si siede il più vicino possibile alla porta. Chi ne ha più urgenza, o è solo più prepotente degli altri, siede sulla poltroncina di sinistra, quella più lontana dal terapeuta, e inizia a raccontare di sè agli altri: una delusione, un evento particolare, spesso un sogno... dopo che ha finito, chi lo desidera occupa la poltroncina libera e gli dice in faccia ciò che il racconto dell’altro gli ha risvegliato. Vi può essere empatia, ma anche una antipatia violenta, riprovazione, indifferenza e così via. Lo scopo è quello di offrire un ambiente protetto ove poter sperimentare sensazioni e sentimenti che nella vita reale ci si è sempre negati. Alla fine di tutto ciò, il terapeuta, che cerca di limitare i suoi interventi a quelli di un moderatore spesso ironico e bonario,(una delle regole del gruppo è: non ci si picchia fra pazienti e non si picchia il terapeuta) tira un po’ le fila della seduta ed offre un tema sul quale meditare, una riflessione, una interpretazione che era sfuggita. Ha qualcosa di patriarcale il terapeuta, e come un padre con molta esperienza mostra ai propri figli errori e percorsi di cammino, loda o rimprovera, e illustra, spesso per la prima volta, pieghe nascoste delle relazioni interpersonali che esistono fra i vari componenti del gruppo, e fra i singoli componenti e i membri del mondo nel quale essi vivono e si muovono. Non mancano momenti forti, e uno dei pezzi essenziali dell’arredamento è una confezione imponente di Kleenex usa e getta. Piange I. che convive con gli esiti della sua poliomielite, che sotto sotto - nel suo ateismo ironico nato da bambina martoriata da una reclusione in un collegio religioso - non riesce a non vivere come una punizione divina, e nei suoi sogni trascina croci spinose che non le sono sufficienti per essere accettata in chiesa. Piange C. che vive fra i bambini e vorrebbe avere un figlio, ma non ci riesce e pensa che la sua vita, nella sua sterilità biologica, non abbia nessun valore, e piano piano sta estendendo quella sterilità a tutta la sua esistenza sino ad immaginare per sè una lapide su di una tomba vuota, con l’iscrizione: qui giace chi non visse mai . Piange R. che ormai nonna non riesce ancora a liberarsi della tirannide sadica della madre morta , ed è sempre di corsa, per paura di essere sgridata. E piangono anche loro, gli uomini, con più fatica e meno lacrime, su amori che non funzionano, lavori che frustrano, vite che non vanno. Al di là del valore soggettivo di esperienze di questo tipo - che si possono accettare o meno - ve n’è comunque uno oggettivo innegabile: la scoperta e la meditazione relativa al rapporto con gli altri, che non si possono più ignorare, e che andranno incasellandosi nel modello relazionale più antico del mondo - la famiglia. La ricerca e l’affetto e, perché no? le gelosie per dei genitori dei fratelli e delle sorelle, che non condividono il nostro sangue, ma sono ugualmente, profondamente parte di noi. Come inventarsi un tunnel dell'amore nel quale passare, oppure no. Senza questa conoscenza, senza il suo linguaggio e le sue ambiguità, sarebbe impossibile comprendere la lotta di Ya’akov con l’Angelo, anche se immaginiamo che l’Angelo sia il messaggero di Dio e che quindi Ya’akov non lotti con se stesso, le sue relazioni interpersonali e con le proprie manchevolezze rispetto ad esse, ma si scontri direttamente col suo Creatore per guadagnarsi un nome e una missione. |
postato da la Parda Flora
alle 11:17
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