Vedendo “The Departed - Il bene e il male” di Martin Scorsese (film che, alla sua uscita, immagino abbia fatto tirare un grosso sospiro di sollievo a tutti i fan di questo regista, anche se, nonostante avrei trovato auspicabile qualche taglio più selettivo al montaggio, però avevo apprezzato anche certe innegabili prese di posizione ideologica di Gangs of New York, soprattutto in un momento nel quale il buonismo stucchevole di molto cinema patriottico americano - con una nazione divisa, sotto il doppio shock dell’attentato alle Twin Towers e della guerra in Iraq - ne fa un film spietatamente critico verso una società che pare, secondo il regista, cambiata più nella forma che nella sostanza: ricordiamo l’eloquente sottotitolo: l’America è nata nelle strade... e la icastica definizione che Billy The Butcher dà della politica, che sta introducendo nei Five Points nuove sfumature di significato della parola potere...), vedendo The Departed, dicevo, mi stupisce che nessuno abbia ripensato a un grande film di qualche anno fa. Sempre una gangster-story, anche se vista dagli occhi di un non americano e dedicata più all’ignorato sottobosco della malavita, che alle vicende dei “soliti” grandi boss; sempre una storia di agenti infiltrati in organizzazioni di mafia (poco importa la nazionalità), tese sino all’estremo limite della resistenza psicologica dei protagonisti (in The Departed, se ci fate caso, Di Caprio è sempre sconvolto: il suo viso è irrigidito, anche quando è solo, in una maschera di perenne tensione rabbiosa e quasi terrorizzata, al punto che, senza nulla togliere alla sua innegabile bravura, ci si stupisce che gli altri malavitosi non si insospettiscano al solo guardarlo in faccia. Osserva sconvolto quanto accade attorno a lui, subisce ed è costretto a far subire violenza, convivendo assai difficilmente con uno spirito che scopriremo puro sino all’autodistruttività, nel disegnare la sua figura di ragazzo dei bassifondi, erede di una famiglia di mezze tacche, alla ricerca di un proprio riscatto da un destino di fallimento e mediocrità che, anche nel suo scegliere il Bene del didascalico sottotitolo, lo ricaccia inevitabilmente nel girone del Male, dove domina incontrastato un sulfureo Jack Nicholson, bravissimo, ma che a mio ovviamente sindacabile giudizio, continua da un po’ troppo tempo a recitare se stesso, anche se lo fa da Dio!).
Ma vedere The Departed, che pur è indubbiamente un bel film, che non lascia allo spettatore l’opportunità di riprendere fiato sino all’ultimissima inquadratura, e illustra, per chi ancora si illudesse, come comprendere davvero il mondo, soprattutto quello fuori dalle porte delle nostre confortevoli e rassicuranti case, non sia decisamente alla portata di chiunque (ricordate “La regola del sospetto” di Roger Donaldson, con un Al Pacino in piena forma nel creare e reggere un baraccone di specchi che alterano e distorcono la realtà, degno di quelli dei vecchi luna-park?) come può non ricordare un altro film, mi sono chiesta, un film enorme come indubbiamente lo è “Donnie Brasco” di Mike Newell, un film così bello da far perdonare persino lo scivolone ..potteriano del suo regista?
Se di fronte al finale di The Departed, infatti, si resta con un acre sapore di amaro in bocca, molto simile a quello che spesso la vita fa assaggiare, magari in dosi minori, circa il troppo spesso aleatorio concetto umano di giustizia, di fronte agli intensi occhi castani del primissimo piano che chiude, dopo averla aperta, la vicenda dell’agente speciale dell’FBI Joe D. Pistone, infiltrato nella mafia newyorchese, così calato in questo lavoro che “gli rode l’anima e mangia la vita”, anche per la consapevolezza del costante, lucido tradimento nei confronti di Benjamin "Lefty" Ruggiero che lo ha affiliato, garantendo per lui, e che si è “rotto la gobba per trent’anni” di “onesta” manovalanza malavitosa, senza infamia e senza lode, saremmo tentati di dire, tremando ad ogni cambio di mano, giacché “quando sei convocato, entri vivo ed esci morto, ammazzato dal tuo miglior amico”, senza mai ottenere niente, se non un figlio drogato e la cronica mancanza di denaro, di fronte al finale di Donnie, che coincide anche con la fine della missione sotto copertura dell’agente Pistone, si provano emozioni ben diverse: compassione, e struggimento. Nonostante l’orrore di un massacro con risvolti da bassa macelleria, nonostante la riprovazione che istintivamente sentiamo di dover provare di fronte a questo mondo violento e spietato, che intuiamo così sottilmente, pervasivamente, corrosivamente, nella sua ambiguità, pericoloso e destabilizzante, prima di tutto per il sempre più schizzato agente infiltrato Donnie il Gioielliere (è davvero possibile, vien da chiedersi, per un normale, onesto cittadino, comprendere lo stress devastante di un lavoro come quello sotto copertura? senza garanzie se non forse quella di non invecchiare e, credo, di aver venduto, comunque vada, per sempre un pezzetto di anima al diavolo?). Nonostante tutto ciò, noi vediamo ugualmente la fine del tirapiedi “Lefty” ("Se tu sei un infame, io sono il più grande idota di merda della storia della mafia!"), che per lo spettatore si cristallizza nella dignitossissima consapevolezza di quale sia ormai il suo destino, che lo fa spogliare di ogni bene terreno, lasciato alla moglie in un cassetto ben visibile, assieme a un ultimo pensiero per l’amico Donnie, noi la vediamo, quella morte che il regista ci lascia solo immaginare, con e nel profondo sguardo, distante e distratto, quasi in trance, di Johnny Depp - che regge senza apparente fatica il confronto con la bravura dolente e dimessa, ma immensa, di Al Pacino - di fronte alla propria salvezza, addirittura all’encomio di Pistone: una medaglia e un ridicolo assegno da 500 dollari, oltre alla promessa di una identità e di una vita nuove, ovviamente. Ma Donnie per troppi anni ha vissuto sul filo del rasoio, rischiando di perdere tutto ciò che di umano aveva, ed è ben consapevole di avere ormai oltrepassato il limite che lo faceva “assomigliare a uno di loro” per diventare davvero - uno di loro! Così, mentre la parabola del rapporto malavitoso con Lefty si chiude, dopo i molti, troppi momenti nei quali l’infiltrato Pistone ha temuto per la sua vita accettando di immergersi completamente in un mondo così alieno da non poterne uscire indenne, paradossalmente, dopo la sbrigativa e grottesca cerimonia della medaglia, di fronte a una famigliola che pare più inebetita che orgogliosa di fronte al suo ricomparire nella loro vita quotidiana, dopo anni di assenze ed incontri sempre troppo furtivi e insoddisfacenti per non aver lasciato il segno, il rapporto umano più saldo, più (mi si passi l’ossimoro) ambiguamente vero, appare proprio quello fra Donnie e Lefty, nato sotto il segno del consapevole tradimento usato come arte di vita e sopravvivenza, e finito sotto il segno di una impossibile redenzione, per tutti.
Se in Departed, assistiamo a un gioco di specchi, di riflessi truccati - il Damon dalla bella faccia pulita, qui particolarmente anodina, da bravo ragazzo, sempre padrone di sé e che non fa trasparire niente della sua autentica natura, al quale ci ha ormai in più film abituati; Di Caprio che appare perfetto come teppistello, cerca inutilmente briciole di conforto dalla psichiatra che lo deve seguire nel suo percorso di libertà vigilata, primo passo verso l’infiltrazione, e farà la scelta della legalità sino alle estreme conseguenze, e infine, perché in qualche modo giustizia vi sia, qualcuno dei buoni dovrà decidere di saltare il fosso ed ergersi al di sopra della legge nel difficile e discutibile ruolo di Angelo vendicatore - in Donnie Brasco c’è bel altro in campo: la consapevolezza che, in realtà, buoni e cattivi, forse, non esistono proprio, se non per permetterci di riuscire a dormire la notte: restano solo gli esseri umani e i loro sentimenti, impastati di fango e di amore, e i loro fallimenti e i loro errori e le loro contraddizioni e i mille compromessi ai quali si devono piegare, sperando di non sbagliare troppo, con la sconsolata consapevolezza che non abbiamo altre vere scelte che cercare di fare del nostro meglio, augurandoci che ci sia permesso farlo.
“A tutt’ora, esiste sulla testa di Joe D. Pistone una taglia valida, sino al valore di 500 000 dollari”Etichette: le vite degli altri |