28 giugno 2007
Il destino di un guerriero
Il destino di un guerriero di Agustín Díaz Yanes

Chi mi conosce un po’ sa che la storia moderna non è il mio periodo preferito; oltretutto, non so perché, ma la Spagna è uno degli stati nazionali che mi intrigano di meno.
Istituzionalmente, la storia moderna inizia con la scoperta dell’America, ovvero con lo spostamento politico-economico degli equilibri europei indotto dalla scoperta dei Nuovi mondi, ma il 1492 è una convenzione: nella realtà, e soprattutto per poveri, i contadini e in genere le classi sociali inferiori, la realtà di tutti i giorni, tra Basso Medioevo ed Età Moderna, cambiò pochissimo, e molto lentamente.
Tant’è che, un po’ provocatoriamente, Le Goff propone come data di chiusura del Medioevo quella della Rivoluzione francese, che perlomeno in Francia, spazzò definitivamente via diritti nobiliari locali, comprendenti talvolta addirittura la gestione della giustizia maggiore, e quindi della pena di morte, diritti risalenti ancora all’età medievale, anche se a scapito del potere del re e dell’opera di costruzione degli stati nazionali, momento clou di questo periodo storico...

Dunque, perché andare a vedere un film come “Il destino di un guerriero”, ispirato al ciclo del capitano Diego Alatriste, personaggio creato dallo scrittore spagnolo Perez-Reverte, autore fra l’altro del Club Dumas (che ha ispirato, in parte, La nona porta di Roman Polanski - fidatevi, il romanzo è molto meglio!) e misteriosamente definito, forse per un certo clima “di cappa e spada” letteratura per ragazzi e quindi finito in mano all’editore Salani, e immagino, per ciò sconosciuto ai più degli spettatori?
Per curiosità, credo, nei confronti di un film spagnolo e comunque europeo (di recente ho visto “Il senso segreto delle parole” prodotto da Almodovar, del quale ho scritto qualcosa per partecipare a una specie di gioco lanciato da un amico blogger), e quindi curiosità per una concezione della regia, del montaggio e soprattutto, della velocità d’azione, lontani da quelli ai quali ci ha ormai abituato, non sempre, a mio avviso, a ragione, il cinema hollywoodiano.
Concordo con i critici ufficiali che il film lasci perplessi. Che la sceneggiatura non sia fra le migliori e vi siano aree brumose come le paludi delle Fiandre sulle quali si apre il film; che spesso esso sia un po’ troppo lento e la trama sembri accumulare a casaccio fatti senza sapere bene dove andare a parare. Ma forse, ho pensato, è la vita stessa dei protagonisti ad essere così.
Però, girando per recensioni ufficiali e non, vederlo criticare per quelli che, a mio modesto avviso, sono i suoi momenti più onesti storicamente, mi pare ingiusto: la maggior pecca pare essere il fatto che c'è poca spettacolarità e pochi effetti speciali; che non si caratterizzano a sufficienza buoni e cattivi, né nella vita, né nelle scene d'azione.
Ma per favore....
Le belle scene di combattimento di Braveheart, per esempio, sempre osannate come momento di grande cinema, includono dei suggestivi, ma anacronistici, gonnellini in tartan che furono "inventati" per motivi politico-nazionalisti solo nel 1700 - ti credo che fra facce dipinte di blu, come facevano i Pitti di quasi mille anni prima, e kilt, i buoni si riconoscevano immediatamente dai cattivi...
Peccato che ancora adesso, un combattimento reale veda numerose vittime cadere per "fuoco amico"! E pensavo che la fase buoni/cattivi con la maggior età fosse superata, visto che il mondo è decisamente più ambiguo, contradittorio e complesso di così.
Le critiche che leggo maggiormente sono: perché non scene di battaglia più spettacolari?
A Rocroi, sconfitta epocale degli spagnoli nella guerra dei Trent’anni, gli spagnoli erano 27 mila, fra fanti e cavalieri, e i francesi ancora di meno: fra le due parti, arriviamo a 4 mila morti, perché in quel secolo, la realtà della guerra è quella.
Alatriste (un Viggo Mortensen sobrio e tutto sommato credibile) dà l'idea di quanto brutale, sporca e stupida la guerra fosse (non che ora sia più intelligente, ma abituati come siamo a fucili di precisione in mano a cecchini a 500 metri dalle vittime, forse ci siamo scordati di quanto il sangue sia rosso e vischioso, e di quanto tempo e dolore ci voglia per morire per una ferita all’addome; di quale caos fosse un combattimento all’arma bianca, dove si sa che spesso realmente, tra confusione e adrenalina, si finiva per ammazzare amici e nemici...soprattutto poi con le strategie militari dell'epoca, che sino a Federico II di Prussia non vedranno sostanziali cambiamenti tecnici. E mi pare che, contrariamente a quanto da molti lamentato, Alatriste se la cavi abbastanza anche nella corrotta Madrid, almeno per quel che è possibile a un poveraccio stritolato dagli interessi dei Grandi di Spagna, e che lo faccia forse persino con più onore di quanto ne abbiano coloro che serve.

Premesse, come ho fatto, tutte le perplessità del caso, vorrei però ricordare che Perez Reverte, prima di diventare romanziere, anche per il disgusto accumulato, ha fatto il cronista di guerra "serio" per vent'anni, e nel film, un barlume di questa esperienza e di questo disgusto mi pare siano filtrati.
Poi, forse dobbiamo decidere: vogliamo solo film all'americana, colossal inqualificabili sul tipo di Troy, che della realtà storica o della fedeltà ad Omero se ne fregano in nome della spettacolarità, oppure pensiamo sia possibile anche un cinema all'europea, con parametri diversi - non a caso, il film è stato accostato al non facile Mestiere delle armi di Olmi, per rigore filologico. Per dire, guardate Olivares ritratto da Velázquez e confrontatelo con quello del film...
E i criticati stretti e poveri vicoli di Madrid, capitale solo da 70 anni (e dove davvero qualche volta nevica d’inverno, ma io nel film ci ho visto soprattutto sole), mi paiono più che credibili, come sarebbero stati credibili in una qualsiasi città europea di quegli anni, anche se certo la revisione urbanistica ottocentesca sarebbe stata scenograficamente più spettacolare e gradevole.

Certo, si esce dalla sala un po' perplessi, ma anche pensierosi, cosa che anche per un film che sicuramente sarebbe potuto essere migliore, è già un buon risultato. Credo che la figura cenciosa di Alatriste, che si definisce "povero e orgoglioso", spesso sopravvive in modo non proprio encomiabile, ma è certamente un valoroso, anche al di là del finale un po' classico - quasi un quadrato all’inglese, a ricordare "Le quattro piume" e tanta cinematografia del genere; l'onore sopra ogni altro valore, compresa la vita, tanto in questa cattolicissima Spagna dove appaiono fra i potenti solo domenicani inquisitori, nessuno pare credere a un al di là peggiore del presente - resterà nella memoria più di altre.

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postato da la Parda Flora alle 12:08  

 

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